Perché parlava in parabole?

XVII domenica del tempo ordinario

1Re 3,5.7-12; Sal 119 (118); Rm 8,28-30; Mt 13,44-52

La liturgia in questa domenica ci presenta le ultime parabole del discorso di Gesù in parabole (Matteo 13).

Sperando di non essere complicato, credo che sia necessario riflettere sul perché Gesù ricorre alle parabole per dire la verità del regno.

Con la parabola, Gesù dice di Dio e del suo regno che viene parlando d’altro; il Maestro non dice subito quel che ha da dire anche perché gli è preclusa la comunicazione diretta e allora ricorre a questo genere narrativo.

Che cosa sono le parabole?

Sono racconti che parlano di cose normali, della vita di questo mondo, delle attività di ogni giorno per suggerire attraverso di esse le verità presenti da sempre nella vita dell’umanità ma nascoste e la vicenda di Gesù porta alla luce queste verità.

Il problema si complica perché la storia di Gesù appare essa stessa come una parabola, ai più incomprensibile ed è di fatto sovente fraintesa. Allora la parabola dice la necessaria conversione del modo di leggere la realtà per vedere finalmente quel che appare nascosto.

Per capire il vangelo di Gesù non bastano le parole; occorre che si rompa un’opacità interiore in chi ascolta. La parabola mira appunto a questo: vincere le resistenze interne e rendere possibile una conversione.

Quindi, la verità della parabola non è contenuta tanto nelle parole ma nella conversione che le parole suscitano in chi ascolta.

Pensiamo all’immagine di chi trova un tesoro nascosto in un campo. Quelli che lo incontrano vedono la sua gioia, ma non ne capiscono la ragione. Vedendolo svendere tutti i suoi averi per comprare quel campo, magari pensano che sia matto. Se invece si chiedessero e gli chiedessero che cosa c’è di tanto interessante in quel campo, magari capirebbero e parteciperebbero alla sua gioia.

La parabola della rete interpreta un altro aspetto sconcertante del modo di fare di Gesù: egli non giudica i suoi seguaci, accoglie in fretta tutti quelli che credono alla sua parola. Non è troppo ingenuo? Non gli capiterà di prendere nella sua compagnia anche Giuda, anche molti seguaci poco raccomandabili? Sì, ma il pescatore non fa la cernita dei pesci prima che entrino nella sua rete; la farà poi, così come per separare il grano dalla zizzania verrà poi il tempo; per il momento occorre annunciare la parola a tutti.

Hanno compreso i discepoli tutte queste cose?

Loro dicono di sì; in realtà occorrerà loro ancora molto tempo per com- prendere, mettere insieme le cose nuove del vangelo di Gesù con tutte le cose antiche che l’esperienza umana insegna.

Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. Non bastano le cose nuove, dette e fatte da Gesù, occorrono anche le cose antiche.

Forse, ciò che manca al nostro linguaggio oggi è proprio il difetto di parabole, del ricorso cioè alle analogie che l’esperienza umana universale offre alla sapienza della fede.

Lo scriba divenuto discepolo del regno dei cieli (come Matteo, per esempio) non butta via le cose antiche (lampada, giare, monete, brocche, vasi…, cammelli, volpi, passeri, avvoltoi, lupi, colombe…, senape, grano, zizzania, viti e fichi…), ma riconosce in esse una verità nuova prima insospettata e impara a trarre lo straordinario dall’ordinario del quotidiano.

Salomone che chiede un cuore che ascolta (prima lettura), il mercante che vende tutto, lo scriba che si fa costantemente discepolo ed espelle dal tesoro ciò che ha imparato da tempo e ciò che ha appreso di recente: tutti costoro cercano con tenacia la sapienza, disposti a investire tutto per essa. La sapienza del Regno governa la loro vita.

Un autentico scriba deve essere in costante esodo da sé stesso e dalle proprie conoscenze per andare oltre e mantenersi fedele sia alla Torah sia alla storia degli uomini. In questo esodo-da-sé, è accessibile il senso del genere «parabola» che rivela e cela, custodendolo, un significato che non a tutti è dato conoscere.