Nulla nel bene va perduto

XIII domenica del tempo ordinario

2Re 4,8-11.14-16; Sal 89 (88); Rm 6,3-4.8-11; Mt 10,37-42

Dure le parole del vangelo di questa domenica: “Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me”. Com’è possibile? Già non è facile credere in Gesù, come si può amarlo più di un genitore o di un figlio?

Gli amori, gli affetti scritti nella nostra carne ci sembrano quelli più solidi e indubitabili. Forse perché in essi la nostra libertà è meno impegnata. Non si sceglie il proprio padre e la propria madre e in genere l’amore per loro non richiede una scelta, è un fondamento, un punto d’appoggio.

Allo stesso modo il figlio ci è dato, così come istintivamente, senza pensieri è dato l’amore per lui.

Noi tutti crediamo che la nostra vita sia possibile solo sul fondamento di alcuni affetti che non hanno bisogno di essere scelti.

Mentre l’affetto e l’amore per il Cristo interpella la nostra libertà, la nostra scelta, anche se questa è risposta ad una chiamata che ci precede, quindi ad una grazia. E quell’amore, per quanto possa sembra eccessivo, è possibile ed anche molto quotidiano: “Chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”. E qui la ricompensa è quella suprema: il cielo, per un semplice bicchiere d’acqua. Non è un po’ troppo?

No, se è dato a motivo dello stretto rapporto che si riconosce tra il “piccolo” e il Maestro di Nazaret.

La donna di Sunem (cfr. la prima lettura) al profeta non offrì solo un bicchiere d’acqua ma lo invitò con insistenza alla sua tavola tutte le volte che passava. Addirittura gli allestì una stanza nella sua casa, in un luogo appartato perché vi si potesse riposare.

Chissà, forse quella donna vide in Eliseo un “piccolo”, un bambino: lei che non aveva bambini conosceva meglio della madre di molti figli quale grazia fosse averne uno. E così ebbe un figlio un po’ strano: presente solo di passaggio, ritirato nella stanza appartata tutto preso dai suoi pensieri. E quella donna riconobbe in tutto questo una grazia straordinaria: “Io so che è un uomo di Dio, un santo”. Quell’uomo di Dio era a modo suo un bambino, senza una casa propria, senza un mestiere che assicuri il domani, senza una figura precisa di vita che nel sistema sociale di divisione dei compiti permette di trovare a ciascuno il proprio posto.

Quell’uomo di Dio commosse la naturale tenerezza materna di una donna, e così la donna decise di adottarlo e di offrigli una casa.

La forma vera di ogni maternità non è forse proprio quella d’esser madri mediante la fede e d’essere credenti mediante l’esercizio della maternità?

E così la donna di Sunem meritò di diventare madre anche secondo la carne: “L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu terrai in braccio un figlio”, così profetizzò l’uomo di Dio.

Ecco la realizzazione anticipata della parola del Signore: “Chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua, non perderà la sua ricompensa… e riceverà il centuplo in questo mondo, e la vita eterna”.

E questo avviene non mediante opere eroiche o la repressione dei sentimenti più immediati ma estendendo quei sentimenti ad ogni “piccolo” soltanto perché è discepolo del Cristo, soltanto perché cerca Dio ed è senza padre e senza madre in questo mondo, è senza patria, è senza casa, è senza tutto ciò che sarebbe indispensabile per vivere.

Le severe parole di Gesù allora possono essere lette come un invito a riflettere sul fatto che chi ama padre e madre, figlio e figlia più del Signore è destinato a perdere quegli affetti.

Ogni uomo, e non solo Eliseo, è in quelle condizioni: senza una casa accogliente, ci chiede di essergli padre, e madre, fratello e figlio.

Accettando questa richieste, adempiremo il comandamento di Gesù.