Vedere credendo e credere vedendo

Domenica di Pasqua nella risurrezione del Signore

At 10,34a.37-43; Sal 117 (118); 1Cor 5,6-8; Gv 20,1-9


Maria di Magdala vede, Pietro vede, il Discepolo amato vede. Il verbo «vedere» caratterizza tutti e tre i personaggi del racconto evangelico proposto dalla liturgia per il mattino di Pasqua.

Questi, però, sono modi diversi di vedere.

L’evangelista, infatti, ricorre a tre verbi differenti. Almeno in questa prima fase della sua esperienza – poi tutto cambierà quando sentirà il Risorto chiamarla per nome – per Maria il verbo utilizzato è blepo (v. 1) che dice il vedere immediato. Il vedere di Pietro è detto con theoreo (v.6): esprime un osservare attento, pieno di domande per cercare il significato di ciò che cade sotto lo sguardo. Il Discepolo amato dapprima vede anche lui come Maria, ma poi, quando entra nel sepolcro, il suo vedere, ora accompagnato dal credere, diviene orao (v.8): è il vedere della fede, che penetra il significato profondo di ciò che osserva. Egli, appunto, vede credendo e crede vedendo. In sé non vede molto, soltanto dei piccoli segni, non incontra per il momento il Risorto come, poco dopo, accadrà a Maria. Eppure vede e crede.

E così entra in quella beatitudine della fede che Gesù annuncerà a Tommaso: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). Ritraduciamo: beati quelli che non mi hanno veduto, hanno visto solo dei segni, eppure hanno creduto.

In questa beatitudine anche noi desideriamo entrare: vedere soltanto dei segni e credere.

Del Discepolo amato evidenziamo ancora due tratti.

Il primo: dopo Pietro, Giovanni entra nel sepolcro. Con la morte e la sofferenza bisogna fare i conti. Occorre entrare nel suo mistero. Perché i segni della risurrezione li incontriamo dentro il sepolcro, non al di fuori. La luce del Risorto splende nelle tenebre. La misericordia di Dio si manifesta dentro il peccato, la sua giustizia dentro l’iniquità, la sua gioia dentro le lacrime. Occorre entrare e lì riconoscere i segni della vita nuova.

Il secondo: il discepolo che vede e crede è anche colui che nel vangelo di Giovanni è identificato non da un nome, non da un ruolo, ma dall’amore che lo lega a Gesù. A consentirgli di credere è la fede, ma una fede che non è separabile dall’amore. Egli vede un sepolcro vuoto: «Hanno portato via il Signore», dice Maria. C’è un’assenza. Ma è un’assenza che egli vive nell’amore. E l’amore è più forte della morte, così si legge nelle Scritture, e quindi è più forte del vuoto di un’assenza. L’amato può esserti strappato via dalla morte, ma l’amore rimane. E se l’amore rimane, si potrà riconoscere e incontrare l’amato quando tornerà a visitarti e a incontrarti. Se il padre della parabola non continua ad amare, il figlio può tornare a casa dopo lunghi anni, ma lui non sarà lì ad aspettarlo e non gli correrà incontro. E anche quando le domande dell’uomo salgono al cielo e restano senza risposte di fronte ai drammi della storia, l’amore rimane. Ci sono situazioni in cui non abbiamo parole da dire, non disponiamo di riposte che anche noi, come tutti, cerchiamo. Ma c’è qualcosa che rimane, ed è l’amore. E l’amore trova altre parole, altre risposte, altri gesti. Soprattutto trova il Risorto.

Quando l’amore è vero, si vede e si crede, e anche altri possono giungere a vedere e a credere, percependosi amati.

 

 

Immagine: Gerusalemme, Basilica del Santo Sepolcro, letto funerario di Cristo all’interno dell’Edicola