At 1,1-11; Sal 47 (46); Ef 1,17-23; Mt 28,16-20
Là dove tutto era iniziato, diventa anche il luogo dove quella storia finisce. In quella Galilea delle genti dove il ministero di Gesù aveva avuto inizio, l’evangelista Matteo colloca anche il luogo dove il Signore “se ne va” (e per quest’espressione usiamo le virgolette).
Ambientazione geografica che ha un valore teologico: l’evangelista vuole affermare che la missione degli apostoli inizia là dov’era cominciata quella del loro Maestro. La Galilea era una regione disprezzata perché abitata da una popolazione derivata da una mescolanza di razze. Per Isaia è “il territorio dei Gentili”, cioè, dei pagani (Is 9,1). E Matteo ci vuol dire che proprio a questi semi-pagani è ora destinato il vangelo.
E tra l’inizio e la fine, nella narrazione secondo Matteo, troviamo altre consonanze: nell’annuncio in sogno a Giuseppe si diceva che il bambino si sarebbe chiamato, citando il profeta Isaia, «Emmanuele, che significa Dio con noi» (Mt 1,23), e l’ultima parola di Gesù ai discepoli è «io sono con voi». In quel nome, Emmanuele, che contiene una promessa, possiamo trovare la chiave di lettura di tutto l’evangelo secondo Matteo.
Un’altra consonanza, spero non forzata, con l’inizio sta nel fatto che i discepoli vedendo il Risorto sul monte che Gesù aveva loro indicato «si prostrarono»: questo è l’identico atto di omaggio che i magi avevano riservato al bambino (Mt 2,11), rivelando, anticipandola, la sua identità.
Ma Matteo non censura nel momento vertiginoso del compimento, oltre che l’adorazione anche il dubbio di alcuni dei discepoli.
Come si può nello stesso tempo prostrarsi e dubitare?
In questo realismo che Matteo non attenua, ci viene detto molto della comunità ecclesiale. La Chiesa è certamente una espressione di amore sostenuta dalla presenza vivente del Signore Risorto, è una comunità di discepoli vivificata dalla Pasqua di Cristo e dalle energie del suo Spirito, ma nello stesso tempo è anche una realtà fragile. Bene lo sappiamo tutte le volte che sperimentiamo in noi il potere del peccato, del male, la debolezza della nostra carne, la fragilità delle nostre dinamiche psicologiche.
In questo realismo c’è spazio da un lato, certamente, per l’adesione a quella Parola la cui bellezza e cura ha conquistato il cuore dei discepoli; dall’altro però c’è anche questa nostra riserva, il nostro dubbio, il nostro essere uomini e donne di poca fede, l’essere creature che in qualche modo faticano – se non addirittura resistono – a lasciare spazio all’irruzione di quella parola che salva, rigenera, rinnova. La fatica a credere convive nei discepoli con la loro fede, così come la zizzania cresce assieme al grano.
Questo miscuglio oggi ci è proposto perché l’Ascensione ci chiede un salto di qualità nella fede.
Una fede costantemente purificata, che diventa una sofferta conquista, giorno dopo giorno, accettando anche le dure correzioni di Dio e della storia.
Il racconto dell’Ascensione nel libro degli Atti (1, 1 -11) sembra confermare queste fatiche: mentre i discepoli lo guardavano «il Signore fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi».
Il teologo Dietrich Bonhoffer scriveva che «l’invisibilità uccide».
In proposito abbiamo coniato anche un proverbio: «Lontano dagli occhi, lontano dal cuore», come a dire che quando viene meno la visibilità viene meno anche la relazione.
La storia narrata negli Atti degli Apostoli e poi quella della comunità ecclesiale dei secoli successivi, testimonia che non è proprio così. Da quando Gesù è asceso al cielo, quante storie di uomini e donne che hanno stretto un legame forte con Lui, hanno obbedito alla sua richiesta di portare il vangelo ovunque. Lontano dagli occhi, ma vivo e vicino con la sua presenza, la sua parola, la sua luce, la sua consolazione, il suo Spirito.
La festa dell’Ascensione fa vivere i giorni dei suoi discepoli anche come attesa. «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo con cui l’avete visto andare in cielo».
Vivere l’attesa, aspettare il Veniente, non è facile. Anche noi come discepoli possiamo avere più l’aria di chi possiede che lo sguardo di chi attende.
Possiamo essere rinchiusi nei nostri pensieri dottrinali, nelle nostre istituzioni, nelle nostre esperienze da non attendere più Dio. Non è facile sopportare questo aspettare Dio.
La festa dell’Ascensione, ci insegna anche questo.
Così come il congedo del Risorto nella chiusa di Matteo indica una modalità precisa di come essere evangelizzatori.
Hans Suss von Kulmbach, L’ Ascensione di Cristo (1513)