«Tu ringrazi prima dei pasti. Bene. Ma io dico grazie prima del concerto e dell’opera, prima del gioco e della commedia, quando apro un libro, disegno, dipingo, nuoto, faccio scherma e pugilato, cammino, gioco, ballo e dico grazie quando tuffo la penna nell’inchiostro».
Così scriveva G. K. Chesterton.
Una riflessione che invita a ringraziare sì per il cibo che si mangerà e per chi l’ha preparato, ma anche ad estendere quella gratitudine ad ogni aspetto della vita.
Il Te Deum è il canto cristiano di ringraziamento per eccellenza, tradizionalmente celebrato dai più la sera del 31 dicembre.
È vero che la percezione di un tempo che sfugge può alimentare una certa amarezza e spesso l’augurio di Buon Anno è colorato dalla speranza che il tempo che verrà sia migliore di quello trascorso.
Il Te Deum, però, è un suggerimento per una memoria grata.
Proviamo, allora, a fare in questi giorni un esercizio di memoria.
Nel tempo trascorso qualcosa è rimasto nella mente e nel cuore, qualcos’altro invece è passato senza lasciare tracce. E questo vale anche per le persone: alcuni volti li dimentichi, altri ritornano.
Il genitore, in genere, insegna al figlio a dire grazie quando riceve un regalo da qualcuno, anche solo per una caramella.
Pur così fondamentale, il ringraziamento è tutt’altro che facile. Il fatto stesso di insegnarlo ai più piccoli è indice che quello non è un linguaggio spontaneo nemmeno per loro.
Da adulti, sembra che tutto sia dato per scontato, obbligatorio, preteso. Poi è sufficiente un raffreddore per capire che la normalità del respiro è un dono, del quale, forse, non abbiamo mai ringraziato.
Il ricevere una cartolina, un messaggio, una telefonata, una visita… non sono pensieri altrui obbligatori. Così come la quotidianità della mamma – o chi per essa – che prepara i pasti, non è dovuta.
È altrettanto vero che troppi ‘grazie’ possono sembrare noiosi. Ma per una volta proviamo a superare quella distaccata ironia che provoca sorrisi seccati per chi si mostra gentile.
Prendiamo carta e penna e diciamo «grazie» per ogni miracolosa «normalità».
I «grazie» diventeranno come tutte le cose buone, uno tira l’altro, e le pagine bianche di un ipotetico diario, si riempiranno in fretta di quella fragile parola.
Poi si sa che nell’ordinaria esistenza non tutto è «grazia», ma la «grazia» è tutto.
E si ringrazierà anche per quelli che non lo fanno.
Ed anche questa è una «grazia», per tutti.
Immagine: Akira Kusaka