«Se vuoi, puoi purificarmi!»

VI domenica del Tempo ordinario

Lv 13,1-2.45-46; Sal 32 (31); 1Cor 10,21; Mc 1,40-45

«Se vuoi, puoi purificarmi!». È bella questa preghiera fatta da un lebbroso a Gesù. Un uomo escluso del tutto dalla società civile, isolato e disprezzato, ha l’audacia di avvicinarsi al Maestro e lanciargli una umile e fiduciosa richiesta: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Il lebbroso fa appello alla volontà di Gesù («Se vuoi») e alla sua potenza («puoi»).

Quel «se» dice la discrezione di chi chiede lasciando però all’altro la libertà di soddisfare o meno la richiesta fatta, e, nello stesso tempo, è una preghiera che chiede all’altro di svelarsi, di dare una risposta, palesare il suo desiderio. È come se quel lebbroso dicesse a Gesù: qual è la tua volontà su di me?

E di fronte a una simile richiesta non si può rimanere indifferenti.

Gesù infatti reagisce: prima con un impeto di commozione («ne ebbe compassione») e poi vincendo ogni distanza con un gesto («tese la mano e lo toccò»).

Il modo con cui Gesù opera la guarigione è significativo. Non si riduce a proferire una parola che risana – come aveva già fatto in alcuni casi -, ma compie un gesto che lo fa entrare in contatto anche fisico con il lebbroso: Gesù tocca colui che tutti evitano, senza paura di contaminarsi. Risanare un lebbroso per la tradizione ebraica era come risuscitare un morto e i vangeli lo indicano come uno dei segni dell’avvento del Regno. Dove irrompe la novità di Dio tutto rinasce e si rinnova. La volontà di Dio sull’uomo è unicamente volta la bene e alla vita: («Lo voglio, sii purificato»). La preghiera di compassione è stata esaudita. Quest’uomo non è più uno scomunicato.

Questo dovrebbe essere l’atteggiamento del cristiano verso i malati, quando la cura diventa mano nella mano, un bacio come quello che Francesco d’Assisi seppe dare al lebbroso quale segno dell’inizio di un’altra visione e dunque di un’altra vita.

Ma dopo la guarigione ecco ancora un comportano singolare di Gesù: «sdegnandosi con lui, lo cacciò via subito». Avvenuta la liberazione, Gesù non sta lì a prendere complimenti: non è tentato dal narcisismo che attende il riconoscimento per il bene fatto e, a costo di sembrare burbero e scortese, scaccia quell’uomo da lui guarito, ammonendolo di non dire niente a nessuno. Gesù non vuole essere riconosciuto solamente per uno che fa miracoli, non vuole che lo acclamino per delle azioni prodigiose, e soprattutto vuole che il segreto riguardo alla sua identità di Messia sia svelato e proclamato quando sarà appeso alla croce. Solo allora sarà lecito, per chi ha capito Gesù, dire che egli era buono, giusto, che era il Figlio di Dio.

Gesù è discreto di fronte alla gente, fa silenzio e fa fare silenzio per non destare l’applauso, conosce l’arte della fuga per sottrarsi al facile consenso degli altri, ma va in collera, si sdegna visibilmente di fronte alla sofferenza, alla menzogna, al misconoscimento della verità, alla pigrizia e alla vigliaccheria delle persone.

Ciò che è narrato in questo episodio non è una fiaba, perché le cose funzionano davvero in questo modo. Sono tanti i discepoli del Maestro, uomini e donne, che nella storia e anche oggi sono andati dai lebbrosi del nostro tempo: barboni, tossici, prostitute, emarginati sociali; li hanno toccati, hanno avuto verso di loro un gesto di affetto, un sorriso, e molti di questi sono guariti dal loro male, diventando a loro volta guaritori.

Prendere il vangelo sul serio ha dentro una potenza che cambia il mondo.

Un’ultima annotazione: alla fine del nostro episodio le parti, in un certo senso, s’invertono. Il lebbroso risanato è reinserito nel consorzio civile in base alle regole della Torah, Gesù invece non rientra in città ma, proprio come un lebbroso, resta fuori in luoghi deserti.

La compassione, quando è autentica assume sempre su di sé la condizione dell’«altro», ormai diventato prossimo. Anche quando il lebbroso è purificato, il guaritore non dimentica la precedente umiliazione del malato. Il risanato se ne va in città, Gesù resta invece nel deserto quasi a custodire il ricordo dell’emarginazione sociale da cui lui stesso ha liberato il lebbroso.