Il rifiuto dei «suoi»

XIV domenica del tempo ordinario

Ez 2,2-5; Sal 123 (122); 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

 

«Ragazzetto lasciavo casa /grande, vecchio, ritorno. / I giovani m’incontrano / e non mi conoscono. Sorridendo mi chiedono: / “Forestiero, di dove sei?”».

Accogliamo i versi del poeta Ho Chih-Chang come un aiuto per la lettura del vangelo di questa domenica.

Certamente le differenze tra il poeta che lascia da ragazzo il paese natio per poi ritornarvi da adulto e non essere più conosciuto e Gesù ci sono. Il Maestro, infatti, era andato via da Nazaret già da adulto e quando ritorna nella sua città natale è riconosciuto: ormai è famoso. La similitudine sta nel ritrovarsi «stranieri» in casa propria: o perché non più conosciuti o perché conosciuti malamente.

«Quest’uomo lo conosciamo bene, è uno di noi», dicono i compaesani del Maestro. Com’è possibile che parli in questo modo, come può compiere tali cose? Lo sconcerto è di coloro che non riescono a mettere insieme una sapienza e una potenza che si reputa venire da Dio con le modeste e umili origini di colui che è conosciuto come «il falegname, il figlio di Maria». Come può il divino conciliarsi con un umano così ‘umano’?

C’è una meraviglia che cerca di capire, così come c’è una meraviglia che misura tutto con quello che già si conosce. Questa conduce all’incredulità e al rifiuto, la prima invece si lascia educare dall’avvenimento che accade.

E Gesù «si meravigliava della loro incredulità»: proprio tra i suoi parenti, nella sua casa, nella sua patria. Sembra questa una costante nella storia della salvezza: i più vicini, coloro che dovrebbero conoscere meglio l’inviato di Dio, che vantano con lui una certa familiarità, sono quelli che meno accolgono il suo messaggio, che più si chiudono alla sua azione.

Ne è una testimonianza la parola disincantata che il profeta Ezechiele riceva dal Signore: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli… Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito…» (Ez 2, 3-4).

L’amara meraviglia di Gesù è unita ad una consapevolezza: conosce, infatti, la sorte di tutti i profeti che lo hanno preceduto.

In un tale clima di incredulità, Gesù non può compiere alcun miracolo. Diversamente era accaduto con la fede della donna emorroissa e dal capo della sinagoga Giàiro, dove Gesù aveva potuto sprigionare tutta la sua potenza salvifica, persino risuscitare i morti. Gesù compie gesti e prodigi in vista della fede e in risposta ad essa. Che senso ha un miracolo fuori dell’‘ambito vitale’ in cui solamente può avvenire?

Eppure, prima di lasciare la sua città, Gesù riesce a compiere qualche guarigione, segno che qualche barlume di fede si è trovato anche lì, tra i suoi compatrioti, tra coloro che invocavano aiuto mentre egli passava.

Nulla, nemmeno l’insuccesso in casa propria, ferma la ‘corsa’ del vangelo. Anche da profeta inascoltato e disprezzato il Maestro continua a diffondere con fiducia il seme dal vangelo.

Il profeta (Ezechiele) e il discepolo (ciascuno di noi) devono sapere che la Parola di Dio non dipende dall’accettazione umana: «ascoltino o non ascoltino» essa va annunciata come segno della fedeltà di Dio.

Nelle difficoltà e nella debolezza resta d’esempio Paolo: «Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle angosce sofferte per Cristo; infatti, quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,7-10).

Anche a noi «basti la sua grazia».

 

 

Immagine: M. Buonarroti, Il profeta Ezechiele, Cappella Sistina, Musei Vaticani