Rimproveri sul fingere e l’apparire

XXXI Domenica del Tempo Ordinario

Ml 1,1-14-2,2.8-10; Sal 131 (130); 1Ts 2,7-9.13; Mt 23,1-12

 

Il rimprovero, se fatto al momento opportuno e con i toni giusti, è un segno di quanto l’altro mi stia a cuore. Del resto, nella Scrittura si legge che anche Dio «tutti quelli che ama li rimprovera e li corregge».

I rimproveri che Gesù rivolge apertamente a scribi e farisei, si rischia di sentirli rivolti ad altri e non a noi stessi. Ma il testo qui è molto chiaro: esplicita che Gesù si sta rivolgendo alla folla e ai suoi discepoli; dunque, e quindi anche a noi oggi che ci accostiamo al testo evangelico.

Che cosa in questo testo viene sostanzialmente rimproverato?

Dire due atteggiamenti.

Il primo è quello di legare pesanti fardelli sulle spalle della gente e di non volerli spostare nemmeno con un dito. Questo è il tipico atteggiamento di chi vuole esercitare un potere sugli altri. Moltiplicando i precetti e complicando le osservanze si mira più soggiogare che a sollevare e così si finisce per contraddire quello che è vero il fine della legge cioè liberare. Se pensiamo a come ha agito Gesù in proposito vediamo egli che si è comportato in modo molto differente. Gesù è andato a quello che è l’essenziale della legge e ha ridotto i comandamenti a due: amare Dio e amare il prossimo. Così i precetti della legge che erano considerati un vero e proprio giogo, vengono alleggeriti e Gesù può arrivare a invitare a prendere il suo giogo su di sé perché non è un giogo pesante che affatica ma è dolce e leggero.

Così quelli che si mostrano più intransigenti, i duri e puri, finiscono prima o poi di trovare qualcun altro più duro e puro di lui, e alla fine arrivano a essere i censori di ciò che loro stessi non riescono a osservare. A questo punto, per paura di riconoscere la loro doppiezza, finiscono per cadere nel secondo atteggiamento denunciato da Gesù: l’ipocrisia del dire e non fare. È quell’atteggiamento di chi mira a essere lodato a ogni costo, arrivando a nascondere i propri piccoli e grandi difetti per mettere in mostra doti vere o presunte.

Agiscono ipocritamente; cioè «fingono».

Probabilmente questo non lo si fa solamente per pura ostentazione. Ogni autorità, per garantire se stessa, ha infatti bisogno anche di apparire. Ovunque, le effigie e i ritratti di chi ricopre una carica sono segno di autorità. Nel mondo aniconico ebraico si usavano altri mezzi: si allargavano i filatteri (cf. Dt 6,4-9) e si allungavano le frange (cf. Nm 15,38-41), che costituiscono una fedele messa in pratica di precetti comandati da Dio. L’ipocrisia non sta nella loro visibilità, ma nella scelta di assumere l’essere visti come forma di affermazione della propria autorità.

L’esercizio dell’autorità comporta, al di là della volontà individuale, sempre qualche forma intrinseca di ipocrisia. È così perché chi esercita un potere – qualunque persona sia – deve affidarsi all’immagine che gli deriva dalla carica da lui ricoperta. Anche l’umiltà e la mitezza personale assumono oggettivamente un altro aspetto in chi ha autorità: la sua è un’umiltà «non comune». Chi esercita il potere può comportarsi «come uno di noi», ma non è uno di noi. La comunità che cerca di vivere secondo il Vangelo è invece in se stessa spoglia di potere: «Voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8; cf. Mt 20,24-25). Eppure anch’essa ha bisogno di essere governata. Questo rapporto nella comunità cristiana del sentirsi tutti uguali ma nello stesso sapendo che è necessaria una guida, rappresenta da sempre un nodo di non facile risoluzione.