Parole e segni di una vita che è per sempre

Santissimo corpo e sangue di Cristo

Dt 8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58


La prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, ci dice che al termine del cammino di quarant’anni nel deserto Mosè invita il popolo a «ricordare». «Ricor­dare» non vuoI dire semplicemente trattenere nella men­te quello che è accaduto ieri, ma significa portare sul cuore per comprendere, capire ciò che è accaduto, se no il passato rischia di passare, cancellato dal tempo e dalla stanchezza.

«Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere» (un cammino duro e difficile), ricordati e riconosci che Egli stesso ti conduceva e che la Sua presenza non è mai venuta meno; proprio per questo quel cammino aveva un sen­so. E in questo cammino, dice Mosè, Dio ti ha fatto provare la fame, ti ha messo alla prova «per sapere quello che avevi nel cuore».

Certo, Dio non ha bisogno di una prova per capire quello che l’uomo ha neI cuore, ma l’uomo sì.

Con questa prova Dio aveva un’attesa: s’aspettava che l’uomo capisse che non si può vivere soltanto di pa­ne. Il dono della manna, un cibo sconosciuto, era un segno dall’alto «per farti capire che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore». In quel deserto, Dio aveva fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia per aiutarti a comprendere che la sorgente della vita si apre là dove Dio conduce l’uomo, non invece là dove l’uomo rivolgerebbe vo­lentieri i suoi passi.

Ma il popolo non comprese: maledì quel cammino nel deserto e mormorò contro Dio; e quando abiterà ormai in una terra fertile, lo stesso popolo rimpiange­rà la manna del deserto e l’acqua scaturita dalla roccia.

Simile all’incomprensione del popolo d’Israele assomiglia la nostra, sempre inclini a lamentarci del presente quasi fosse impossibile da vivere; il modo con cui noi ricordiamo il passato più che aiutarci a comprendere il senso di un cammino, ci induce al rimpianto di ciò che non può tornare.

Allo stesso modo le folle di Galilea avevano mangiato di quel pane mira­colosamente moltiplicato da Gesù in un luogo deserto, ma non avevano riconosciuto un segno, semplicemente s’erano saziate.

Il giorno dopo, esse cercarono di nuovo Gesù, nell’attesa che ripetesse il gesto del giorno pre­cedente. Cosa che Gesù non fece. Ma il Maestro parlò del senso di quel gesto: «lo sono il pane disceso dal cielo, se uno mangia di questo pane vivrà in eterno». Il vero pane spirituale, quello che sazia, non è la manna che i figli di Israele mangiarono nel deserto, ma il pane disceso dal cielo, cioè Gesù stesso. Non sa mangiare di quel pane chi attraverso il segno pas­seggero di un giorno non sa aprirsi al desiderio della vita che rimane per sempre.

La vita dell’uomo in questo mondo appare come il cammino nel deserto, perché l’uomo impari a desiderare la «terra promessa»: quella terra nella quale la vita è per sempre, e non per un giorno.

Neppure i disce­poli capirono sempre, capirono tutto, capirono subito. Capiranno poi, quando gli avvenimenti di quei giorni si vol­geranno nella memoria e nella fede.

L’Eucaristia è il gesto mediante il quale facendo memoria della vita donata da Gesù, ricono­sci che il cammino della vita ha una meta, un destino a noi proposto fin da oggi. Ricordando la vita e la morte di Gesù, proclamando la sua risurrezione, ciapriamo alla speranza e alIa ricerca della vita che dura per sempre.

A nutrire questa spe­ranza è l’Eucaristia, il mistero del suo corpo e del suo sangue, i segni cioè della sua morte. Una morte vissuta non come se fosse la fine di tutto, ma al contrario vissuta come l’offerta generosa di chi – avendo conosciuto la promessa di Dio ed essendo ormai persuaso della sua fedeltà alle promesse – più non è condan­nato a curarsi della vita di un solo giorno, ma è libero di donare la propria vita come testimonianza della verità della parola che esce dalla bocca di Dio.