Dt 4,1-2.6-8; Sal 15 (14); Gc 1,17-18.21-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-2
La questione cruciale che il vangelo presenta è rilevante non solo per il tempo di Gesù ma anche per l’oggi: il valore delle tradizioni e il senso dei riti.
Le tradizioni e i riti, da sempre esprimono un’identità sociale che rende partecipi di un contesto e garantisce l’appartenenza ad un tessuto di relazioni condivise. Le tradizioni rivelano il volto di un popolo e i riti esprimono il legame con Dio.
Il vangelo presenta i discepoli di Gesù che hanno un comportamento diverso, un po’«spavaldo» rispetto all’identità sociale che sembra intoccabile. E così nasce un dibattito.
Alla domanda diretta dei farisei Gesù non risponde in modo diretto ma risale alla questione di fondo, cioè l’accoglienza del volere di Dio e così traccia una divisione tra il cuore e le labbra, tra quanto una persona vive e quello che invece dice.
Il contrasto tra parole «che sono precetti di uomini» e un cuore che non cerca Dio rende vano il rito cultuale
Non tutte le tradizioni sono negative e non tutte le novità sono positive. Ciò che il vangelo rifiuta è «la tradizione che avete tramandato “voi”». Sia il formalismo dell’osservanza dei precetti come la trascuratezza della sapienza della tradizione sono entrambi atteggiamenti errati. L’attenzione non è da porre nel «vecchio» o nel «nuovo», ma in ciò che è vitale, in ciò che aiuta e sostiene la vita.
Farisei e scribi avevano una ricerca sincera e di radicale fedeltà alla volontà di Dio.
Ma correvano un rischio: credevano di essere fedeli alla legge ‘ripetendola’ e di attualizzarla frantumandola in una casistica sempre più complicata.
È il rischio porta ad una illusione: la pretesa di programmare il rapporto con Dio, la ricerca della sua volontà attraverso una serie di comportamenti che danno sicurezza e in qualche modo fanno sentire a posto nella relazione con Dio o con gli altri.
Lo stupore di un Dio che sempre è al di là delle immagini che l’uomo ha di lui, la novità del dono, il cuore e l’essenziale della parola, tutto questo viene soffocato e annullato dalla pretesa dell’uomo di conoscere Dio e la sua volontà praticando riti e tradizioni.
Si può capire il discorso un po’ duro del Maestro: egli veniva da villaggi dove gli portavano i malati, i mendicanti ciechi lo chiamavano, le donne cercavano di toccargli almeno la frangia del mantello… e ora alcuni gli pongono domande sulle tradizioni, di mani lavate o no, di formalismi.
Gesù scardina ogni pregiudizio circa il puro e l’impuro. Rivendica la purezza di ogni realtà vivente. Il cielo, la terra, ogni specie di cibo, il corpo dell’uomo e della donna sono puri, come è scritto nel libro della Genesi: «Dio vide e tutto era cosa buona». E attribuisce al cuore la possibilità di rendere pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle. «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me»: il pericolo è vivere una religione di pratiche esteriori, ma avere «il cuore lontano» da Dio. Il Santo non è presente dove è assente il cuore.
Ma il ritorno al cuore non basta.
Ci guardiamo dentro e vi troviamo di tutto, anche ciò di cui ci vergogniamo: «dal cuore vengono le intenzioni cattive, prostituzioni, omicidi, adulteri, malvagità…». C’è bisogno di purificare la sorgente, di evangelizzare le nostre zone di durezza e di egoismo, guardandoci con lo sguardo di Gesù, quello posato sull’adultera, su Maria Maddalena, su Pietro pentito.
Non sono le pratiche esteriori che purificano, è più facile lavare le mani che lavare le intenzioni. E per purificare il cuore, occorre lo sguardo di Gesù.
Immagine: Maschera in pietra del neolitico preceramico (7000 a.c.) custodita al Musée “Bible et Terre Sainte”, Parigi.