Imparando lungo la via

XXV domenica del tempo ordinario

Sap 2, 12.17-20; Sal 53; Gc 3, 16-4,3; Mc 9,30-37

 

Lungo la via che conduce a Gerusalemme, il discepolo impara a conoscere il volto di Gesù, il segreto del suo cammino, la meta a cui tende tutta la sua vita; lungo la via il discepolo impara anche a conoscere la propria debolezza, la sua fatica a seguire il Signore; lungo la via, il discepolo scopre che è sempre Gesù a camminare avanti, mentre gli può solo e sempre stare dietro.

Lungo la via il discepolo – il vangelo di questa domenica – ascolta una parola già udita dal Maestro (Mc 8, 31), ma che al suo orecchio appare sempre dura, se non estranea: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (9,31).

Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi che offrono la sequenza di una storia drammatica, la vicenda pasquale di Gesù.

Una storia già vista – in filigrana – nei profeti, nei giusti. Una storia sempre drammatica, contraddittoria e violenta. Il libro della Sapienza (cfr. la prima lettura) dice: «Tendiamo insidie al giusto… mettiamolo alla prova con violenze… condanniamolo ad una morte infame» (Sap 2,12.17-20): è questa la risposta dell’uomo empio alla parola di Dio comunicata dal profeta, parola che suona come accusa alla logica dell’ingiustizia e della violenza.

Il profeta diventa segno di contraddizione, pietra di scandalo per un sistema sociale e religioso basato sull’ipocrisia, nascosto dietro la maschera di un’apparente legalità.

La storia del ‘profeta’ Gesù è caratterizzata in particolare dal verbo «consegnare»: Giuda lo consegna ai soldati; i soldati ai capi del popolo; i capi del popolo a Pilato e questi ai crocefissori. Ma il paradosso è che il Padre stesso consegna il Figlio alla morte e in questa morte è Dio stesso a consegnarsi all’uomo, a donarsi, a offrire per l’uomo la sua stessa vita.

Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi che invitano a cercare di Gesù un volto molto diverso da quello che i discepoli, l’uomo, s’immagina. «… non capivano queste parole e avevano paura di interrogarlo» (Mc 9.32).

Come mai se non capisce, il discepolo non chiede?

Forse perché ha paura della risposta del Maestro e preferisce nascondersi dietro le proprie parole che offrono cammini più facili, desideri nascosti: «Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (9,34).

«Di che cosa stavate discutendo lungo la strada?» (9,33).

Al discepolo che resta senza parole, il Maestro dà una risposta: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (9,35).

Gesù prende sul serio il desiderio dei suoi di essere i primi, ma la risposta che offre è sconcertante: inverte il percorso che il discepolo credeva di poter percorrere.

Per Gesù essere il più grande è stare ai piedi dell’altro, consegnarsi perché l’altro possa vivere. Il discepolo deve capire che esiste una sola via che realizza pienamente il desiderio che lo abita: è quella via da cui il discepolo ha distolto lo sguardo, la via di Gesù, «il quale da ricco che era si fece povero… che non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso…» (2Cor 8,9; Fil 2,6.7); la via dell’umiltà, la via del servizio, la via del dono.

Ma c’è un passo ancora da compiere per il discepolo: «E preso un bambino lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie… colui che mi ha mandato» (9,36-37).

Il vangelo di questa domenica ci offre del Maestro tre qualifiche sorprendenti: Gesù è l’ultimo, colui che serve, un bambino. Dio è così.

Il teologo don Giovanni Moioli, poco prima di morire scriveva: «Mi preparo ad incontrare come giudice della mia vita quel Gesù che come ha lavato i piedi a Pietro, li laverà anche a me». A giudicare la nostra vita sarà questo Dio.

A queste parole possiamo anche commuoverci un po’, ma in noi, come per i discepoli, resta una parte di fatica ad accettare Dio così come lo racconta Gesù.

 

Immagine: Lucas Cranach il Vecchio, Cristo benedice i bambini, 1535-40. Städelsches Kunstinstitut, Frankturt am Main.