In cammino imparando dal Maestro

XI domenica del tempo ordinario

Es 19,2-6a; Sal 99; Rm 5,6-11; Mt 9,36-10,8

All’inizio del capitolo 9, Matteo presenta Gesù come un maestro itinerante che passa per i luoghi dove gli uomini abitano e vivono, incrocia le loro storie e si lascia toccare dalle loro vicende. Egli è un maestro che va verso, che viene incontro; è un uomo che cammina, usando la suggestiva visione dello scrittore francese contemporaneo, Christian Bobin.
E percorrendo città e villaggi, incontrando la gente, vede la stanchezza delle folle, il loro abbattimento, paragonandole a pecore disorientate, disperse sui monti perché non hanno un pastore che le guidi, ed ha compassione per questa gente: è questo il sentimento che spinge Gesù a occuparsi delle folle. La compassione è un sentimento che dice una profonda e interiore partecipazione. Il vocabolo greco fa riferimento all’amore materno, il grembo. Si tratta di un amore viscerale, ostinato, che quasi non vede ragione, prescindendo da ogni valutazione di merito. Gesù ama la folla e basta. All’origine di ogni missione, vi è un sentimento viscerale di compassione.

Chissà se di fronte alla gente che incontriamo avvertiamo dentro di noi gli stessi sentimenti di Gesù. Forse proviamo compassione ma nello stesso tempo siamo presi dalla percezione che a quella folla noi non possiamo provvedere e che quindi quel sentimento va controllato perché non ci schiacci.

La compassione di Gesù porta ad una conclusione concreta, pratica, che è la preghiera: «Pregate il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!». Gesù chiama i discepoli a partecipare alla preghiera perché nulla va da sé: occorre sempre chiedere, pregare. Oltre che dalla compassione, il mandato missionario nasce dalla preghiera.

Una preghiera segnata dalla speranza. Le folle non sono semplicemente pecore sfinite e stanche, sono anche «messe abbondante», un campo sicuro per l’opera di Dio. Quindi non c’è solo smarrimento e stanchezza, ma anche un senso in cui operare, un’attesa a cui corrispondere.

E siccome c’è un senso, un’attesa, una speranza, ognuno di noi può accogliere l’invito di Gesù a diventare operaio della compassione di Dio, della sua pietà, ad avere un cuore di carne per piangere con chi piange, per avere mani che sanno sorreggere e accarezzare, asciugare lacrime e trasmettere forza e dire così il volto del Dio di Gesù Cristo. Operai di una messe che è abbondante. Lo sguardo positivo del Signore sorprende ancora il nostro pessimismo.

L’elenco dei Dodici rivela il volto concreto di una comunità reale: personalità forti che hanno lasciato un segno (Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni) e figure sbiadite di cui a malapena si è conservato il nome (Taddeo) e di cui sappiamo poco. Discepoli che hanno dovuto affrontare un cammino preciso per costruire la comunità di Gesù: Simone diventato Pietro; le due coppie di fratelli chiamati a trasformare i loro rapporti di sangue in rapporti determinati dal fare la volontà del Padre; Matteo che da esattore delle tasse è diventato discepolo e apostolo; Giuda, colui che tradì Gesù. Come ogni comunità cristiana, anche la comunità di Gesù conosce glorie e gioie, ma anche miserie e infedeltà ed è attraversata da eventi dolorosi e tragici.

Nel discorso di Gesù sembra esserci una contraddizione, in riferimento al comando di non andare tra i pagani e di non entrare nella città dei samaritani: pare limitare l’orizzonte alla missione.

Certamente è un tratto che va compreso nella situazione storica del momento, un tratto che appare superato. Ma non è del tutto così: almeno due indicazioni, infatti, mantengono intatta la loro freschezza.
La prima è che non si parla semplicemente di «casa d’Israele», ma di «pecore perdute». La prima espressione dice il limite, ma la seconda dice la vera natura dell’universalità evangelica, che non sta semplicemente nell’andare dovunque, ma nella ricerca dei perduti. Gesù stesso non è uscito dai confini di Israele.
Missione non è correre dovunque e arrivare dappertutto. L’essenziale è far maturare, anche in un luogo solo, quei valori che hanno in sé una carica di universalità. L’essenziale è essere, dovunque ci si trovi, un segno dell’amore di Dio per tutti, sia pure di fronte ad un uomo solo.

La seconda indicazione: come quella di Gesù, anche la missione del discepolo è itinerante, «andando, strada facendo».
E il suo compito è indicato da cinque imperativi: il primo è il compito della parola (predicare), gli altri quattro riguardano la liberazione dell’uomo dalle sue sofferenze (guarire, risuscitare, mondare, cacciare i demoni).

Un sesto imperativo non descrive più i compiti da svolgere, ma il modo di svolgerli: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date»: è la richiesta del completo distacco da qualunque forma di interesse egoistico nello svolgimento dell’azione apostolica.
Il discepolo di Cristo non lavora per ottenere qualche vantaggio personale: per essere conosciuto, stimato, riverito, per arricchirsi. Offre gratuitamente la propria disponibilità per narrare la gratuità del Padre, come ha fatto il Figlio.
La ricompensa del discepolo sarà la gioia di aver servito e amato i fratelli con la generosità con cui ha visto operare il Maestro.

 

 

 

Immagine: Alberto Giacometti, L’uomo che cammina, Bronzo, 1960,