Lv 19,1-2.17-18; Sal 102; 1 Cor 3,16-23; Mt 5,38-48
«Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio».Questo paradosso paolino presente nella 1Cor (3, 18 – 19) può essere scelto come sfondo sul quale inquadrare il brano evangelico di questa domenica.
Il modo con cui Gesù rilegge la Torah è a dir poco scandaloso, perché lontano dalla sapienza umana fatta di reciprocità interessate e risposte calcolate. La giustizia eccedente e eccessiva proposta da Gesù ha come riferimento ultimo l’imitazione della perfezione del Padre. È a quel modello che il Figlio chiede ai discepoli di tendere.
Una proposta stolta, quella del Maestro, per usare il linguaggio di San Paolo. Ma solo accogliendo e partendo da questo riferimento alto è possibile vivere le complesse relazioni fraterne.
«Occhio per occhio, dente per dente»: la legge del taglione era già il tentativo di porre un argine, un limite per evitare che la violenza debordi. «Un occhio per un occhio, un dente per un dente», ma che tutto finisca lì, non superare quella soglia. E quando vieni punto sul vivo, ti accorgi che la stessa legge del taglione non è poi così facile da applicare perché le reazioni rischiano di essere peggiori del danno subito.
A quella legge Gesù chiede uno scarto qualitativo per spezzare la logica della reciprocità, per opporsi al male perché non si vuole perdere un fratello!
Ma l’amore per i nemici è così difficile che può diventare un pretesto per non lasciarsi inquietare più di tanto dal vangelo.
Il compromesso può essere così pensato: se ricevo uno schiaffo, non lo restituisco, non sarò così grossolano come lui, mi metto su un altro piano, ma mi guarderò bene da cercare nuovamente una familiarità con lui. Il disprezzo è la forma più sottile della vendetta.
La proposta evangelica è di altro tono.
Porgendo l’altra guancia si incrociano gli occhi di chi ti ha ferito e così si continua a cercarlo come uno del cui affetto non si può fare a meno.
La massima di Gesù non è vincolata a un possibile, ma non assicurato, esito sugli altri. Esige in prima istanza il proprio operare. L’esempio – come già detto – viene dal Padre, che fa sorgere il suo sole e fa piovere su buoni e cattivi, su giusti e ingiusti (Mt 5,45).
Anche Dio si rende vulnerabile. Non lo fa per convertire i cattivi in buoni, infatti i primi non si accorgono neppure che il Padre celeste si prende cura di loro. Agisce così per non abdicare alle proprie responsabilità di creatore del sole e della pioggia e di esseri umani tanto buoni quanto cattivi. Lo fa per non diventare a propria volta ingiusto.
È proprio la sua benevolenza a ribadire l’esistenza di una diversità radicale tra giustizia e ingiustizia. Se poi tale modo di agire può diventale occasione di conversione dell’«altro», è un’«aggiunta» (Mt 6,33) data a chi cerca il regno di Dio e la sua giustizia.