Sap 12,13.16-19; Sal 85; Rm 8,26-27; Mt 13,24-43
«Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11,19): così era stato giudicato Gesù dai farisei.
Fariseo significa «separato» e il gruppo religioso dei farisei con facilità tendeva a separare: i giusti dei peccatori, quindi se stessi dagli altri, e anche Gesù dal loro gruppo.
Allora il Maestro parla a questi con parabole perché la riflessione che viene offerta da quella forma di narrazione coglie di sorpresa, è di non facile lettura, ed è più difficile muoverle delle obiezioni. Comprendono bene la parabola, invece, coloro che erano stati accolti alla mensa di Gesù in quanto peccatori perdonati, che non si erano sentiti separati.
Eppure, anche tra i discepoli di Gesù germoglia il desiderio di separare, di chiarire le situazioni attraverso la modalità di allontanare chi non è del proprio gruppo: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi» (Lc 9,54).
Impareranno, strada facendo, i discepoli, che Gesù non avvalla questi mezzi sbrigativi del tagliare e separare.
È vero che la sua parola è una spada tagliente, che «scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12), ma quella spada non può venire usata per tagliare dal gruppo di Gesù coloro che vi si sono intrufolati come zizzania in un campo di grano.
Ma come comprendere la parabola?
Il rischio è quello di cadere in una lettura banalizzante, come se fosse un semplice manifesto di «tolleranza», un invito a non voler distinguere il bene dal male, ad accogliere tutto con indifferenza, non saper distinguere grano e zizzania, non tanto perché si è convinti dalla pazienza di Dio e dalla speranza nella sua opera futura.
Si arriva quindi nemmeno più a scandalizzarsi, come invece fanno quei servi che allarmati domandano al loro padrone: «Non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania?».
Domanda legittima, perché effettivamente quest’ultima non era prevista. «Un nemico ha fatto questo», risponde il padrone.
Zizzania e nemici ci sono (di quest’ultimi, quante volte se ne parla nei Salmi), ma noi rischiamo di non più vederli.
Ma l’insegnamento fondamentale della parabola non è tanto sulla nostra incapacità di vedere, ma che la zizzania non può essere strappata via dal campo.
O almeno, noi non siamo capaci di svolgere quella operazione.
Al massimo la spada o la falce di cui disponiamo possiamo usarla nei confronti dei pensieri e dei sentimenti del nostro cuore. Se la volessimo usarle verso chi ci sta attorno, il rischio è che insieme alla zizzania butteremmo al fuoco molto buon grano.
“Vuoi che andiamo a raccogliere la zizzania?”. La risposta del padrone è sorprendente: «No… lasciate che l’uno e l’altra crescano insieme fino alla mietitura».
Il padrone saggiamente sa che c’è un tempo per la crescita e non si può raccogliere o intervenire intempestivamente in questo momento delicato. E c’è un tempo per la mietitura: qui avverrà la scelta.
La parabola del grano della zizzania può essere letta come la parabola della pazienza di Dio in questo mondo e della fatica dell’uomo ad accettare che Dio abbia pazienza.
E la pazienza divina è il vero discernimento sulla storia, sul bene e sul male che in essa convivono, che in noi convivono.
Di questo ne è testimone Gesù Cristo che preferirà morire perché molti possano separare dentro di sé la zizzania dal grano, piuttosto che falciare i peccatori chiamando in soccorso una legione di angeli.
È nella logica del Regno, nel chicco di grano che deve morire per portare frutto che noi possiamo scoprire il modo giusto per giudicare la storia e il mondo.