Giornata del Seminario 2025

L'intervista ai seminaristi e il materiale per vivere nelle nostre comunità la giornata del 26 gennaio

Domenica 26 gennaio le comunità parrocchiali delle quattro diocesi della provincia di Cuneo condividono la domenica del Seminario. Giornata dedicata alla preghiera per le vocazioni alla vita sacerdotale e per accompagnare i giovani che presso il Seminario Interdiocesano di Fossano svolgono il proprio cammino di formazione. In questa pagina troverai l’intervista ai sei seminaristi, due spunti di riflessione di don Federico Boetti e don Dario Ruà: “Giubileo: l’occasione per una rinnovata risposta alla propria vocazione e per sperare in un’umanità migliore” e “Corresponsabili del nostro Seminario Interdiocesano”. Inoltre è disponibile la traccia per la preghiera dei fedeli per vivere nelle comunità questa giornata.


Intervista per Giornata del Seminario

 

Nicolò Bellino (25 anni – Diocesi di Mondovì – 6° anno)

Alessandro Daniele (24 anni – Diocesi di Cuneo-Fossano – 5° anno)

Kevin Melis (28 anni – Diocesi di Cuneo-Fossano – 3° anno)

Alessandro Testa (23 anni – Diocesi di Saluzzo – 3° anno)

Gianmichele De Conno (30 anni – Diocesi di Cuneo-Fossano – 2° anno)

Bonaventure Ngake (23 anni – Diocesi di Bangassou, Repubblica centrafricana – 2° anno)

 

Nel cammino del Giubileo papa Francesco ci invita ad essere “pellegrini di speranza”; cosa significa per te oggi vivere la speranza?

Nicolò: Penso che la speranza sia una delle cose più difficili da vivere. È difficile perché siamo portati più a vedere gli aspetti negativi del contesto ecclesiale (le chiese che si svuotano, l’indifferenza) piuttosto che annunciare i segni di quella speranza cristiana: Gesù morto e risorto. Quando penso al tema del Giubileo sento quasi una sorta di avversione, perché mi sembra si parli di qualcosa di irraggiungibile e di poco interessante. Vivere la speranza significa ritrovare fiducia nel Signore, che guida la sua Chiesa. È importante soffermarsi per un anno intero su questa realtà, che può fare della nostra vita un’esistenza capace di seminare bene e gioia alle persone che incontra.

Alessandro D.: È un grande invito quello che ci è fatto. Nel nostro tempo, spesso viviamo di corsa e siamo spettatori di grandi cambiamenti, il papa di invita a guardare con speranza tutto questo, senza rassegnazione o paura. Abitare la speranza è invito a vivere la vita in modo semplice, curando il bene e lasciandosi guidare dalla fede.

Kevin: Chi sta fermo non spera. Chi spera è in cammino. Per noi cristiani la speranza è una persona, Gesù Cristo. Essere pellegrini di speranza significa portare ogni giorno Gesù Cristo nelle nostre buone opere, perché il suo cuore è la vera porta santa per il Cielo. L’indulgenza che l’anno santo ci regala è un ulteriore incoraggiamento a ripartire con questa sicura speranza: il cuore di Dio ci ama sempre.

Alessandro T.: Vivere la speranza significa radicarsi profondamente nella fiducia nella promessa di Dio, che non delude mai. Essere “pellegrini di speranza” implica di camminare ogni giorno con uno sguardo proteso verso il futuro, testimoniando con la fede che il bene vincerà, che la luce è più forte delle tenebre e che l’amore ha l’ultima parola. Essere “pellegrini di speranza” è accogliere la chiamata a vivere il presente con gratitudine, confidando nel il Signore che guida ogni passo del nostro viaggio.

Gianmichele: In un mondo sempre più frammentario in cui domina la legge del relativismo e dell’egoistica realizzazione del sé, vivere la speranza significa mantenere lo sguardo fisso su Colui che solo fonda l’unità del mondo e della vita personale e collettiva. Vuol dire resistere alle provocanti lusinghe del mondo, che tenta di convincerci che l’uomo stesso sia un dio. La Speranza è la virtù capace di riportare l’uomo verso la vera realizzazione della propria esistenza ed alla fonte originaria della felicità; compagna indefettibile lungo l’intero arco del nostro cammino, soprattutto nei momenti più oscuri, continuamente ci addita il fine della nostra fede e del nostro pellegrinare: Gesù, gioia piena, bene supremo e senso definitivo.

Bonaventure: Vivere la speranza significa avere fiducia nella bontà e nella misericordia di Dio, anche nelle situazioni più difficili e incerte. Significa credere che Dio è sempre con noi e che ci accompagna nel nostro cammino, anche quando non vediamo una via d’uscita. La speranza cristiana non è una semplice ottimismo o una fiducia nelle proprie forze, ma è una fiducia in Dio che ci sostiene e ci guida. È speranza che si fonda sulla promessa di Dio di essere sempre con noi e di non abbandonarci mai. Vivere la speranza oggi significa avere fiducia in Dio, essere pellegrini con Lui, essere aperti alla grazia, essere solidali con gli altri e essere testimoni della speranza.

 

La Chiesa in questi anni sta vivendo il Sinodo, cosa significa per te un cammino ecclesiale condiviso?

Nicolò: Mi pare che “cammino sinodale condiviso” si possa intendere come sinonimo di Chiesa. Se è vero che fare il sinodo vuol dire dialogare, provare a comprendersi, aiutarsi, camminare uniti verso il bene comune che è l’annuncio del Vangelo, non trovo altra spiegazione se non che la Chiesa, come tale, è sinodo. Sogno una Chiesa che sappia ascoltare, ma provando anche ad agire in base a ciò che ha ascoltato e non solo mettendosi in ascolto in maniera teorica. Potremo raggiungere la sinodalità se sapremo accorgerci di chi ci sta di fronte, guardando alla persona e a ciò che essa può dare secondo le sue capacità.

Alessandro D.: Credo che uno dei segni più belli del Sinodo, che ho potuto vedere in questi anni provenga dalle nostre realtà parrocchiali, che cercano di camminare insieme. Vuol dire avere la pazienza di conoscersi, aspettarsi, rispettarsi, immaginare progetti comuni. Soprattutto scoprire che alla base c’è la fede nel Signore che non viene meno alle sue promesse, ma che anche oggi cammina sulle nostre strade.

Kevin: C’è un gran bisogno di tradurre tutto questo parlare in passi concreti nelle realtà diocesane e parrocchiali, e di farlo in tempi brevissimi, di fronte al tracollo delle nascite, al diradarsi del clero… Per fare esperienze significative occorre già unire le forze e camminare insieme per davvero. Dove si lavora insieme tra parrocchie i frutti nella pastorale si vedono: l’entusiasmo è maggiore e la speranza vince.

Alessandro T.: Un cammino ecclesiale condiviso è tale quando si vive concretamente il senso profondo dell’essere Chiesa, popolo di Dio in cammino insieme. Il Sinodo non è solo un evento, ma un’esperienza di ascolto reciproco, di dialogo sincero e di discernimento comunitario, in cui ogni membro della Chiesa è chiamato a offrire il proprio contributo. Un cammino ecclesiale condiviso abbatte muri e costruisce ponti, fino a mettere in discussione il “si è sempre fatto così” per trovare nuovi modi di dire la tradizione della Chiesa.

Gianmichele: Essere Chiesa vuol dire essere comunità: non si dà salvezza se non insieme agli altri. Un cammino ecclesiale condiviso implica di riscoprire continuamente la vocazione comunitaria della Chiesa, la quale è composta di tante membra che compongono lo stesso unico corpo: ogni parte è necessaria per la riuscita del tutto. Questo significa superare l’indifferentismo per partecipare attivamente alla vita ecclesiale; appianare le divergenze minori operando carità e in quelle maggiori sforzarsi di far prevalere il desiderio per raggiungere la meta finale, a tutti comune, tenendo sempre presente che uno è il capo e il senso del nostro andare: Cristo Signore.

Bovaventure: Un cammino ecclesiale condiviso, come quello del Sinodo, è un percorso di crescita e di maturazione della Chiesa, che si realizza attraverso la partecipazione attiva e la collaborazione di tutti i suoi membri. In questo senso, un cammino ecclesiale condiviso implica alcuni aspetti. L’⁠ascolto reciproco nella disponibilità ad ascoltare le diverse opinioni e le esperienze dei fratelli e delle sorelle nella fede. La condivisione delle responsabilità nella consapevolezza che la Chiesa è un corpo mistico, in cui ogni membro ha un ruolo importante da svolgere. Accoglienza e inclusione nella disponibilità ad accogliere e ad includere tutti i membri della Chiesa, indipendentemente dalle loro differenze e dalle loro debolezze.


Giubileo: l’occasione per una rinnovata risposta alla propria vocazione e per sperare in un’umanità migliore

 

La nostra identità non è mai compiuta, finita, essa è sempre nell’atto di farsi e di riceversi. Il chi siamo è continuamente rimesso in gioco dagli eventi e dagli incontri che accadono nella nostra vita. In questo senso siamo continuamente vocati, ovvero chiamati ad aperture di possibilità. Pertanto, il tema della vocazione accompagna tutta la nostra esistenza e non riguarda solo qualcuno. Chi siamo dunque si iscrive ricevendosi nei contesti che abitiamo, che viviamo, facendo i conti con la realtà e la sua drammaticità. Tra le numerose possibilità che si aprono e dischiudono nella nostra vita vi è anche il Vangelo e la sua accoglienza nella fede. In esso si rivela la chiamata che Dio rivolge all’umanità, il suo sogno: che ciascun uomo e ciascuna donna possa, attraverso il dono dello Spirito Santo, amare come Gesù Cristo ha amato.

Non a caso, nella costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano II, è stata messa in evidenza l’universale chiamata alla santità. Tutti i battezzati, indipendentemente dal loro stato di vita, sono chiamati a vivere in comunione con Dio e a camminare sulla strada della santità. Una strada che, come l’esperienza personale di ciascuno di noi mostra bene, è fatta di alti e bassi, in cui non è garantita la progressione e in cui non è detto che la tappa successiva sia necessariamente migliore di quella precedente. Su questa strada si inserisce la possibilità di vivere il Giubileo e di conseguire l’indulgenza plenaria.

Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, con un linguaggio per addetti ai lavori, afferma che «le indulgenze sono la remissione davanti a Dio della pena temporale meritata per i peccati, già perdonati quanto alla colpa, che il fedele, a determinate condizioni, acquista, per se stesso o per i defunti, mediante il ministero della Chiesa, la quale, come dispensatrice della redenzione, distribuisce il tesoro dei meriti di Cristo e dei Santi». Pertanto, anche dopo che la colpa dei peccati è stata perdonata mediante l’assoluzione, resta da rimettere la “pena temporale”. Sentendo un’espressione del genere uno potrebbe pensare ad un castigo che Dio ha inflitto al peccatore per punirlo dal male commesso. In realtà, come afferma Papa Francesco in Misericordiae vultus n. 22, la pena temporale è «l’impronta negativa che i peccati hanno lasciato nei nostri comportamenti e nei nostri pensieri». “L’impronta negativa”, cioè il disordine, le contraddizioni, il dissesto che i comportamenti peccaminosi lascino in noi: cattive abitudini, debolezza della volontà, disordine degli affetti, inclinazione a ricadere nel peccato, ecc. Evidentemente, anche dopo che il peccatore pentito ha ricevuto il perdono di Dio, “l’impronta negativa” rimane e, per quanto possibile, va “riparata” grazie ad un cammino di conversione. La nostra libertà storica, la nostra identità, rimane ferita dal male e necessita di guarigione. L’indulgenza è così uno dei modi attraverso cui la Chiesa si fa carico della nostra debolezza per sostenerla. Come affermava un noto teologo del Novecento, Karl Rahner, «l’indulgenza non sostituisce il difficile lavorio dell’amore […]; essa è piuttosto l’aiuto della Chiesa volto a favorire l’opera sempre difficile dell’amore».

Concludendo, il Giubileo ci offre la possibilità di sperare per noi, e per quelli che ci vivono accanto, in una umanità migliore, attraverso una rinnovata risposta alla propria vocazione e alla chiamata universale alla santità. Possa ciascuno di noi cogliere questa preziosa occasione.

Don Federico Boetti – Referente per la Diocesi di Mondovì


Corresponsabili del nostro Seminario Interdiocesano

 

Oltre a mettere al centro la preghiera per le vocazioni e per il discernimento personale dei seminaristi, la domenica del seminario nasce per favorire la consapevolezza di come la formazione dei seminaristi ci riguardi tutti. Non occorre andare troppo indietro nel tempo per ricordare quando in ogni nostra diocesi vi era un seminario: ad Alba, a Cuneo, a Fossano, a Mondovì e a Saluzzo, infatti, c’era il Seminario vescovile. Questa vicinanza e la presenza per tanti decenni dei seminari minori aveva favorito la nascita di un forte legame tra le comunità parrocchiali e il Seminario della propria diocesi. Con la nascita del Seminario Interdiocesano questo prezioso rapporto di prossimità e di premurosa corresponsabilità si è dovuto rimodulare. Non sono mancati, in questi anni, tanti gesti di premurosa carità in favore del Seminario interdiocesano di Fossano. Di certo c’è bisogno di ribadire che la formazione dei seminaristi sia questione di tutti, anche se il seminario è leggermente più lontano dalle nostre singole diocesi. Per questo motivo la giornata del Seminario, pur essendo principalmente orientata alla preghiera, ha un suo risvolto pratico nella raccolta dei fondi necessari ad assicurare un luogo decoroso e le necessarie coperture per garantire un percorso di formazione sereno e accessibile a tutti. Nella misura in cui ci sentiremo corresponsabili del nostro Seminario Interdiocesano, riusciremo parimenti a sostenerlo nelle sue incombenze e necessità: nella preghiera e nell’operosa carità. Anche il poco che le singole comunità raccoglieranno per sostenere il Seminario Interdiocesano sarà fondamentale per sostenere il tutto delle sue attività.

Don Dario Ruà – Referente per la Diocesi di Saluzzo

 

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