Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 79; 1 Cor 1,3-9; Mc 13,33-37
Il profeta Isaia dà del tu all’Altissimo e lo chiama padre, ma nello stesso tempo sente che Dio non gli è più così vicino.
Nell’Antica Alleanza sovente è Dio che dice all’uomo, che si è allontanato da Lui, «Ritorna». Qui è il profeta che si rivolge a Dio con la medesima richiesta: «Ritorna» (Is 63, 17b).
E perché Dio dovrebbe ritornare?
Per mostrarsi a gente che non lo cerca più.
Noi che da decenni parliamo di una società secolarizzata, di un Occidente indifferente a Dio, probabilmente era in parte anche così ai tempi di Isaia, quando oramai l’uomo non invocava più il Signore: «Siamo diventati da tempo gente su cui non comandi più, su cui il tuo nome non è stato mai invocato» (Is 63, 19).
E così l’uomo, secondo l’immagine del profeta, «si è avvizzito come le foglie secche, ha perso la linfa vitale» (Is 64, 5b).
E questo è accaduto, almeno così pensa Isaia, anche per colpa dell’Altissimo: «Perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità» (Is 63, 6b). Te ne sei andato perché noi ti abbiamo fatto arrabbiare.
Allora il profeta lancia una sfida: siccome Dio si è nascosto e l’uomo non lo cerca più, chiede al Signore di mostrarsi: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi» (Is 63, 19b): fatti vedere, mostra il tuo volto, e se compi una tale azione vedrai che la gente tornerà pregherà, t’invocherà, si stringeranno nuovamente a te.
E Isaia è convinto che non solo l’uomo, ma anche tutta la creazione si rallegrerà di questo: «Davanti a te sussulterebbero i monti» (Is 63, 19c).
Il Natale ci dice che Dio ha ascoltato il grido del profeta, ha squarciato i cieli ed è sceso, il Verbo è venuto ad abitare in mezzo a noi.
Ma il prologo di Giovanni dice anche che: «Dio venne ad abitare in mezzo a suoi, ma i suoi non lo riconobbero» (Gv 1, 11).
Dio ha mostrato il suo volto, ma l’uomo non l’ha riconosciuto o forse ha guardato altrove.L’Altissimo si è mostrato nella forma più comprensibile: quella di un bambino. E questo mostrarsi così, un bambino, quindi debole, richiede la nostra vigilanza: «Fate attenzione, vigilate» (Mc 13,33).
Esortazione a vigilare che Gesù la rivolge ai discepoli prima che inizi la sua passione. Sappiamo poi come al Getsèmani è andata a finire: i suoi dormivano.
«Vegliate» perché Dio viene, ma in modo diverso da come te lo aspetti: un bambino in una mangiatoia, un corpo appeso ad una croce, oppure all’improvviso, oggi («avevo fame, sete, ero in carcere…»)
L’Avvento è soprattutto l’attesa del ritorno di Gesù. Un’ attesa escatologica, vivissima nei primi cristiani, e progressivamente indebolitasi nella coscienza dei fedeli e, pertanto, sempre nella necessità di essere risvegliata.
Il desiderio del ritorno del Signore Gesù nella gloria è parte integrante del nostro desiderio di Dio: le ultime parole della Bibbia sono proprio queste: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22, 20).
La fatica del vegliare il vangelo secondo Marco la racconta elencando quei tempi in cui giunge il tempo di dormire.
Il Signore potrebbe venire «nella sera», quando Giuda lo consegna e Pietro, Giacomo e Giovanni dormono, invece di vegliare con lui; o forse «a mezzanotte», quando regna l’oscurità e dominano le tenebre; o «al canto del gallo», quando Pietro lo rinnega; e «al mattino», quando ormai la notte è diventata lunga, insopportabile.
Qualunque sia la porzione della notte scelta dal Signore per visitarci, l’importante è che ci trovi svegli e attenti per cogliere l’attimo del suo ritorno.
Sapendo che Gesù ci visita già oggi, e ogni giorno è attesa della sua venuta.
Immagine: Edward Hopper, Cape Cod Morning (1950)
L’anno liturgico si apre all’insegna della vigilanza, un termine nelle società attuali legato assai più alla sicurezza che all’attesa. Si vigila contro possibili minacce, e non già per attendere qualcuno. Per questo motivo al giorno d’oggi la vigilanza è delegata agli specialisti (i vigilantes).
Il Vangelo parla invece di un incontro; per questa ragione il vigilare e il vegliare sono per tutti: “Quello che dico a voi, lo dico a tutti. Vegliate!”.
Che sia una richiesta esigente lo prova lo stesso Vangelo di Marco; basta infatti passare al capitolo successivo per prendere atto che Pietro, Giacomo e Giovanni nel Getsèmani non ne furono capaci. Ciò avvenne proprio nel momento in cui Gesù innalzava al Padre («Abbà») la sua lacerata preghiera.
I versetti di Marco sono notturni. Elencano le quattro scansioni che nel mondo antico dividevano le ore poste tra il tramonto e il sorgere del sole (sera, mezzanotte, canto del gallo, mattino; cf. Mc 13,35).
Perché bisogna vegliare? Perché la vita di fede è paragonata alla lotta che si esercita per non essere vinti dal sonno? Perché occorre restare svegli anche quando giunge il tempo di dormire?
Semplicemente perché è nella notte che la nostra capacità di attendere viene messa alla prova.
La vigilanza evangelica non è dominata dalla paura. Essa richiama piuttosto la premura.
Vegliare significa essere attenti, «qui e ora», alle necessità del prossimo.
È quanto non riuscirono a fare Pietro, Giacomo e Giovanni nell’orto quando furono vinti dal sonno, mentre Gesù era nell’angoscia.
Non bisogna lasciare che fatti e avvenimenti, povertà e dolori ci scorrano accanto mentre noi dormiamo di un sonno che rende stordito il nostro cuore. Essere vigilanti comporta accorgerci che altri, oggi, sono nella solitudine e nella disperazione e che forse loro, a differenza di quanto fece Gesù, non hanno più neppure la forza di pregare.
È difficile esserne all’altezza; ci viene chiesto tanto. Nella nostra vita siamo infatti paragonabili per lo più a Pietro, Giacomo e Giovanni: dormiamo e lasciamo soli gli altri.
Vigilare significa attendere la venuta del Signore; tema tanto centrale dell’Avvento.
Uno dei motivi per attendere sta nella debolezza della nostra capacità di condivisione. Siamo chiamati a essere consapevoli di quanto ci manca.
La consapevolezza cresce non già quando si afferma che non c’è più nulla da fare; al contrario essa non è mai tanto acuta e vera come quando si sperimenta la comunione.
È il «già» a rimandarci al «non ancora».
Nella II lettura si afferma: «La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo» (1Cor 1,6-7). Non manca nulla quando attendiamo.
È un paradosso: in virtù di quello che abbiamo, sappiamo quanto ci manca.
A riempire di doni (carismi) la nostra vita di fede è l’attesa.
Attendere è uno stile di vita.
Ce lo ricorda Paolo. Egli ci indica un comportamento non appiattito sul presente, perché perennemente aperto al domani di Dio: «Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; quelli che piangono come se non piangessero; quelli che gioiscono come se non gioissero (…) passa infatti la figura di questo mondo» (1Cor 7,29-31). L’attesa sta tutta in quel «come se non».
Non significa disimpegno, nemmeno una «fuga dal mondo». Si tratta di consapevolezza che il domani del nostro incontro con Dio è ben più grande dell’odierno incontro che gli esseri umani hanno con sé stessi e con i loro simili.
Quando le nostre vite non sono avvolte nel sonno, è l’attesa a dar corpo al nostro «già».