Dn 12,1-3; Sal 16 (15); Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32
Il tempo attestato dai passi biblici di carattere escatologico è orientato a una conclusione definitiva della storia umana, dopo la quale nulla sarà più come prima: il sole si oscurerà e la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Che cosa resterà, dunque?
Leggere e commentare i passi biblici dedicati alla fine del mondo non è sempre facile. Proviamo tuttavia a trovare un punto di riferimento, che è questo: che cosa vi è di irrinunciabile in quei discorsi, che sembrano così lontani dal nostro modo di pensare?
Irrinunciabile è che il mondo così com’è ora non è quello voluto da Dio: «E quando sentirete di guerre e di rumori di guerre, non allarmatevi; deve avvenire ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti una nazione contro una nazione e regno contro regno; vi saranno terremoti in diversi luoghi e vi saranno carestie: questo è l’inizio dei dolori» (Mc 13,7-8).
La verità di questi passi sta nella loro mancanza di eccezionalità.
Da sempre nel mondo ci sono guerre, terremoti e carestie e molti altri, inesauribili mali.
Solo il riferimento a Dio ci induce ad affermare che quelle realtà normali nella storia umana vanno giudicate inaccettabili.
Il risanamento del mondo non può scaturire dal suo interno, l’umanità non è in grado di auto-redimersi: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria». La definitiva salvezza deve «venire».
Venire dall’alto, non scaturire dal basso: «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo [dove già si realizza] così in terra [dove ancora non si realizza in pienezza]».
Un sacro sonetto del poeta inglese John Donne (1572-1631) inizia così: «E se questa fosse l’ultima notte del mondo?».
Il fatto che, secondo le parole del vangelo, il cielo e la terra passeranno per lasciar posto al mondo avvenire e che solo il Padre conosce l’ora di quando ciò avrà luogo, dovrebbe ricordare, per ogni credente, la perenne attualità dell’interrogativo del poeta.
«E se questa fosse l’ultima notte del mondo?».
L’annuncio, a volte, è stato proposto per incutere paura. Non è l’uso giusto, poiché il perfetto amore scaccia la paura (cf. 1Gv 4,18).
È comunque vero, che oggi troviamo difficile ricordare che l’intera vita dell’umanità è precaria, temporanea e provvisoria.
I credenti sono chiamati a mettere in conto un’improvvisa interruzione che viene dall’esterno e può sopraggiungere in qualsiasi momento.
Le parole di Gesù ci dicono che l’attesa della fine non è una previsione, è uno stile di vita. Stile di vita che cristianamente non dovrebbe essere orientato dalla paura. Infatti, se ogni giorno c’è un mondo che muore, ogni giorno c’è anche un mondo che nasce, un germoglio che spunta, foglioline di fico che annunciano l’estate.
Quante volte si è spento il sole, le stelle sono cadute dal nostro cielo, lasciandoci senza sogni: una disgrazia, una delusione, la morte di una persona cara, una sconfitta nell’amore.
Gesù vuole raccontare non la fine ma il fine della storia: Dio è vicino, è qui.
È necessario ripartire, un’infinita pazienza di ricominciare, guardare oltre l’inverno, all’estate che inizia con una gemma su un ramo, guardare «alla speranza che viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito da festa» (P. Ricoeur).
«Dalla pianta di fico imparate»: Gesù ci porta alla scuola delle piante, perché le leggi dello spirito e le leggi profonde della creazione coincidono.
Da una gemma di fico imparate il futuro del mondo: «che non è compiuto così com’è, ma è qualcosa che deve svilupparsi ancora oltre, e che deve essere inteso più in profondità. Il mondo è una realtà germinante» (R. Guardini), incamminata verso una pienezza profumata di frutti.
Da una gemma imparate il futuro di Dio: che sta alla porta, e bussa; viene non come un dito puntato, ma come un abbraccio; non portando un’accusa ma un germogliare di vita.
Immagine: un’opera di Quint Buchholz