Beati perché si spera

IV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

Sof 2,3; 3,12-13; Sal 145; 1 Cor 1,26-31; Mt 5,1-12


Confesso che il commento al vangelo delle Beatitudini mi è da sempre difficile. Non perché non credo in quella promessa, anzi, non di rado scorgo accanto a me uomini e donne «beati» seppure viventi in condizioni umanamente difficili.

Vedo e credo, e vorrei fermarmi lì senza commentare la promessa contenuta in questa pagina evangelica. Eppure, il commento è anche necessario.

Chiedo allora aiuto al biblista Piero Stefani, il quale scrive che nel linguaggio biblico «beato» equivale a «felice». Il primo dei salmi inizia con «Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi» (Sal 1,1). Quell’esordio potrebbe benissimo essere tradotto così: «Felice l’uomo che…». Tuttavia – annota Stefani – il termine greco per felicità (eudaimonia) non ricorre mai né nel Nuovo Testamento, né nella Bibbia greca dei Settanta. Al suo posto vi è appunto la «beatitudine», o ancor meglio vi è l’aggettivo concreto «beato» (makarios).

Per le Scritture la felicità consiste nell’essere proclamati beati.

Nel gergo comune «felicità» va a braccetto con «buona sorte». Quindi, la felicità umana non dipende solo da sé stessi: è connessa all’accadere, a qualcosa che avviene in modo imprevedibile, e che si può perdere in un attimo.

È possibile dire a qualcuno, guardando la sua vita dall’esterno, «tu sei felice»?

Probabilmente sì. Ma in quel dire lo sguardo è quasi sempre rivolto al passato, a quanto è già stato; non si ha il coraggio di spingere l’orizzonte in avanti, nessuno infatti sa che cosa riserverà il domani.

Per antitesi, il genere letterario proprio della Scrittura chiamato «macarismo» (dal greco makarios, «beato»), consiste proprio nel proclamare la beatitudine altrui.

Ridico: chi mai, dal di fuori, può arrogarsi il diritto di affermare: «Tu sei felice»? Chi è nelle condizioni, rivolgendosi a un altro, di sostenere: «La tua condizione è stabilmente felice»? «Il paradosso delle Beatitudini evangeliche – scrive Piero Stefani – ancor prima dell’individuazione dei soggetti (i poveri, i piangenti, i miti, gli affamati e assetati di giustizia, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati; Mt 5,3-10), sta nell’arditezza di proclamare dall’esterno la felicità altrui. Nel linguaggio biblico la beatitudine è un detto che dichiara presente la salvezza». Questo è il paradosso della parola evangelica: che si sa di essere felici non già perché si sta scrutando il proprio cuore, ma perché si ascolta una voce che, dal di fuori, proclama che si è tali. Nulla è più lontano dal modo comune di sentire. Anche per questo il salto della fede avviene quando si rende certa la speranza, una realtà che nella esperienza comune è, non di rado, esposta a cocenti smentite. Le motivazioni date alle beatitudini hanno a che fare con la realizzazione delle promesse. La loro stessa possibilità di essere proclamate dipende da questa condizione. Una parola esterna afferma: «Tu sei felice». Una simile espressione ha senso solo se realizza quanto afferma. In definitiva è l’ascolto stesso di quella parola a rendere felici.

«Per questo le Beatitudini – conclude Stefani – potevano essere enunciate solo da Gesù. Si è beati in virtù dall’ascolto della sua Parola. La felicità continua a essere legata a un accadere. La fede afferma che la stabilità di quanto avviene è nelle mani misericordiose di Dio in relazione a quel che sta avvenendo e avverrà. La beatitudine proclamata da Gesù sul monte è la stabilità della speranza. I discepoli a cui è rivolta sono beati anche se vivono in una condizione che, osservata con occhio umano, appare contraddistinta in massima parte dall’infelicità. Non si spera di essere felici; si è beati, cioè felici, perché si spera».

 

Immagine: Peter Mitchev