Alléluia: canta e cammina

Domenica di Pasqua

Mc 16,1-7

Con la festa della Pasqua si ritorna a cantare, nella liturgia, l’Alléluia, la parola più gioiosa per esprimere la lode e acclamare la vittoria di Cristo sulla morte.

Nella storia della musica, il canto pasquale per eccellenza è stato interpretato in vari modi. Un fuoco d’artificio l’Alléluia di Haendel, altri invece sono più discreti come i vari toni alleluiatici gregoriani, come quelli della comunità di Taizé o l’Alléluia del Salmo 150 della Sinfonia dei Salmi di Igor Strawinski, sobrio e ieratico, come se uscisse dai cieli e mostrasse la calma che segue all’agitazione dovuta alla battaglia più grande. Alcuni compositori contemporanei hanno composto degli Alléluia «dissonanti», riuscendo così a dire quella grazia che si conquista a caro prezzo, quella gioia di Pasqua che passa attraverso le ferite del Venerdì.

Possiamo dire, dunque, che c’è Alléluia e Alléluia.

Non è questo certo il luogo per discutere di musica, ma un tentativo per dire come il cantare la gioia della Pasqua necessità di toni differenti.

In determinati vissuti, in particolari tempi storici, un Alléluia sobrio e discreto sembra più adatto e intonato per esprimere la festa della Risurrezione.

Infatti, non è facile dire quella gioia a coloro che soffrono, che sono ancora nel travaglio della speranza, per chi lotta con la malattia, con il non senso del vivere, per chi abita in territori dove la guerra è vissuto quotidiano.

Del resto il vangelo secondo Marco presenta delle donne che dopo aver udito l’annuncio della Resurrezione di Cristo «fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite» (Mc 16,8: un versetto che purtroppo i lezionari liturgici omettono).

Per quante persone la Pasqua è una promessa nella quale si crede e si spera anche se la loro storia non permette di cantare un Alléluia maestoso perché resta ancora la paura.

Il silenzio delle donne davanti al sepolcro vuoto forse ha la capacità di mostrare una gioia pasquale che non cancella o ignora il dolore, quasi che non esistesse, ma che invece matura nel silenzio, dentro il dolore stesso del mondo, convertendolo dal di dentro, venendo ad abitare in esso.

Personalmente e come comunità ecclesiale siamo invitati a elaborare la nostra speranza e ad attendere la salvezza, ma assumendo, senza dimenticarlo, tutto il mistero di iniquità, di male, di dolore che abbiamo celebrato nel venerdì santo, per riconoscere il mistero di un amore immenso che proprio lì si rende presente, per sconfiggere la morte entrando nella morte stessa. È in questo silenzio che matura il grido della nostra gioia, perché poco a poco iniziamo a comprendere che la morte, il dolore, il non senso, sono ormai abitati dalla presenza di un amore più forte.

E così, solenne o sobrio, nonostante tutto, cantiamo l’Alléluia, come scriveva sant’Agostino: «Cantiamo Alleluia! Allora si avvererà la parola della Scritturaparola di gente non più in lotta ma fra le ovazioni del trionfo: La morte è stata inghiottita nella vittoria. Cantiamo Alleluia! Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Cantiamo Alleluia anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove… perché come dice l’Apostolo: Dio è fedele… Oh felice Alleluia, quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena tranquillità, senza alcun avversario!… Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente angustiata, lassù da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui in via, lassù in patria. Cantiamolo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere il gaudio del riposo ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti: canta e cammina» (Discorso 256).