Il cieco vedente

IV domenica di Quaresima (Anno A)

1 Sam 16, 1b.4a.6-7.10-13a; Sal 22; Ef 5,8-14; Gv 9,1-41


È vero che gli inizi letterari sono importanti, danno l’intonazione a ciò che seguirà; ma è altrettanto vero che è dalla fine, dalle conclusioni che si viene illuminati su ciò che precede.

La seconda prospettiva è quella che possiamo accogliere in riferimento al brano evangelico. «È per un giudizio che io sono venuto, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi»: con questi versetti conclusivi l’evangelista offre il messaggio sintetico della pagina del cieco nato.

I farisei lì presenti, udendo le parole di Gesù, chiedono: «vuoi forse dire che siamo ciechi anche noi?». Essi, infatti, sono sicuri di vederci bene. E per loro “vedere” significa credere di capire, saper già e quindi poter giudicare.

La risposta di Gesù è lapidaria: «Se foste ciechi, non sarebbe grave, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane». Ciò che è grave non è essere ciechi dalla nascita, ma presumere di vederci bene: questa pretesa impedisce di vedere.

I farisei, sfidano Gesù con la solita strategia: quella di fermarsi alla superfice delle cose, alle verità scontate, ‘oggettive’ che per essere riconosciute non hanno bisogno di un impegno del soggetto.

Gesù invece, quando parla di cecità, si riferisce al suo significato più profondo, spirituale.

I farisei sono ciechi a motivo della loro pretesa di vederci bene.

Per essere illuminati dovrebbero confessare la loro incapacità a porsi domande sul senso delle cose, di limitarsi a ciò che vedono e appellarsi a quello che tutti possono vedere.

Del resto, sono proprio loro che tutte le opere le fanno per essere ammirati dagli uomini, nascondendo quello che c’è nel cuore. In tal modo quel che c’è dentro a poco a poco diventa invisibile ai loro stessi occhi.

La verità, che rende liberi, è viva, non fissata nel già saputo e per essere conosciuta necessita di venir prima creduta.

I farisei non si aspettano nulla da Dio. Sanno già tutto. «Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore», dicono di Gesù che ha contravvenuto la legge del sabato. Sanno che un cieco dalla nascita non può all’improvviso vederci; sanno che i miracoli non possono accadere, sanno che… E se poi i fatti smentiscono le regole da essi fissate, preferiscono negare i fatti piuttosto che negare le loro regole. Così mostrano di essere ciechi.

Meglio allora denigrare il cieco nato: «Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». Edenigrare Gesù: «Quest’uomo non viene da Dio, come può un peccatore compiere tali prodigi?».

Che strano: Gesù compie un gesto luminoso – apre gli occhi al cieco – e tutti dovrebbero poter vedere che quell’uomo viene da Dio.

Eppure… I farisei pretendono di vederci benissimo tanto da opporre all’incertezza dell’identità di Gesù la certezza di quella di Mosè: «Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio». In realtà non vedono da dove venga Gesù, perché non vedono neppure da che parte venga Mosè. Attraverso la Legge non hanno trovato la strada che conduce alla presenza di Dio; hanno invece creduto a una tradizione soltanto umana: chiara, definita, conclusa, che non ha alcun bisogno di riferirsi a Dio per essere compresa.

Sul riconoscere di non vederci bene, faticano anche i discepoli di Gesù: «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori?». Domanda per avere spiegazioni dell’esistente, non tanto perché Gesù apra i loro occhi e li renda capaci di conoscere le opere di Dio.

Sicuramente siamo ciechi anche noi: lo confessiamo.

Ma insieme invochiamo la luce dall’alto, perché «la fede appare come un cammino dello sguardo, dove gli occhi si abituano a vedere in profondità» (Lumen fidei, 30). E quella luce potrà mostrarci praticabili le vie che oggi appaiono chiuse, rimediabili i mali sui quali oggi precipitiamo sentenze.

Come sempre Gesù guarda al cuore e in questo episodio riconosce l’unico che è disposto a crescere nell’arte del vedere, il cieco appunto.

 

 

Immagine: Arcabas, il cieco nato