Sir 35, 15b-17.20-22a; Sal 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
Nella prima lettura ritorna il tema di una preghiera da fare con insistenza, presente nella liturgia di domenica scorsa: «Il grido del povero attraversa le nubi, non si quieta finché non raggiunge lo scopo. Non desiste finché l’Altissimo non sia risponda». Prima o poi il Signore interverrà.
È comprensibile che Paolo al termine della vita dice che per lui è stato importante conservare la fede, continuare a credere che Dio ascolta la nostra preghiera e risponde. Facendo riferimento alla propria vita l’apostolo dice: «In tribunale, tutti mi hanno abbandonato. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza».
Una preghiera insistente, nella fede di essere ascoltati.
Questo è il pregare come un povero che chiede. Ed è così che si entra in relazione con Dio: l’insistenza è di chi ha bisogno. La preghiera è dire: «sono povero, ed ho bisogno di te per essere guarito, perdonato, salvato».
Il fariseo osserva scrupolosamente le pratiche della sua religione, anzi fa di più di ciò che è chiesto. Il suo torto non sta nell’ipocrisia, ma nella fiducia della propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, la salvezza come un dono, ma piuttosto come un premio doveroso per il dovere compiuto. A parte quel «ti ringrazio» iniziale non guarda a Dio, non attende nulla da Lui. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente.
Anche per San Francesco la salvezza è stata un regalo. Il poverello d’Assisi ha sì cantato il Laudato sì, ma era una lode per ciò che ha fatto Dio, non per ciò che ha fatto lui.
Come stiamo davanti a Dio, così staremo anche davanti agli uomini.
La parabola parla della preghiera ma, in realtà, è in gioco il modo di concepire l’esistenza: la preghiera è rivelatrice di qualcosa che va oltre la preghiera stessa. Di conseguenza, ciò che va raddrizzato non è anzitutto questa, bensì il modo di concepire Dio e la sua salvezza, se stessi e il prossimo.
L’atteggiamento del pubblicano è esattamente l’opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Dice la verità: è al soldo dei romani invasori ed è esoso nell’esigere i tributi: è certamente un peccatore. Ma è consapevole di esserlo. Non ha nulla da vantare, non ha nulla da pretendere. Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se stesso.
Quanta gente piegata dalla vita, additata pubblicamente perché peccatori, sta con la testa bassa. Bello ciò che scrive san Paolo: «Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno attesto con amore la sua manifestazione». L’apostolato ha ormai imparato a guardare senza disprezzo né giudizio i peccatori, riconoscendosi solidale con la loro esperienza e vicino alla loro condizione.
Il commendo finale di Gesù fa di un giusto un peccatore e di un peccatore un giusto. Il giudizio di Dio sovverte i giudizi umani: chi si credeva lontano e perduto è accolto e salvato, mentre chi si credeva approvato da Dio, risulta lontano. Questo può apparire scandaloso per gli uomini religiosi, ma è buona notizia per chi si riconosce bisognoso della misericordia di Dio.
Il problema è sempre lo stesso: il giudizio sulla coscienza e sull’operato dell’altro, sulle sue condizioni di vita o, meglio ancora, sulle sue scelte in cui anche i condizionamenti sociali possono giocare un forte ruolo. Non si tratta di chiudere gli occhi, di negare che l’operato di un pubblicano sia ingiusto, o di giustificare chi si schiera con il potere di turno per arricchire se stesso, ma di non confidare nella pura osservanza di precetti considerandosi così migliori di altri. L’accoglienza dell’altro, in tutta la sua diversità, anche peccaminosa, passa proprio attraverso la «giusta» percezione di sé che, se veramente tale, non può mai essere «a posto», autogiustificante, e questo anche per il più grande santo di questa terra.
La giustizia di cui Dio non si stanca di andare in cerca non è certamente la laccata aderenza alle forme dell’etichetta religiosa, ma l’umiltà del grido di chiunque non suppone nulla, ma si affida in tutto.
Dio vede subito la differenza fra chi si crede, e chi crede e basta.
Immagine: Una scema del film Andrej Rublëv di Andrej Tarkoskij (1966).
