Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2 Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43
Nelle religioni, di solito, il termine «Sacro» rimanda ad una realtà affascinante ma che nello stesso tempo incute paura. Non per nulla si costruivano luoghi dove isolare il Divino. Il «Sacro», così, diventa sinonimo di «separato, distante, lontano, totalmente altro». E per tenersi buona questa realtà fascinosa ma anche ambigua, si celebravano dei sacrifici placatori.
Anche la vita – oltre che i riti religiosi – necessitava di leggi per regolare il presunto modo corretto di rapportarsi al divino. Tra i vissuti da regolare, perché considerati impuri, c’era tutto ciò che aveva a che fare con il «sangue».
Nel testo evangelico di Marco, ambedue queste figure femminili si trovano in una condizione di impurità per via della fuoriuscita di sangue, per una, e della condizione mortale, per l’altra. Per questo motivo il solo «toccarle» renderebbe impuro chiunque. Tale «stato di impurità» non ha una valenza etica, ma appartiene alle norme igieniche che gli ebrei del tempo osservavano; impurità che prevedeva di conseguenza una serie di riti di purificazione, abluzione ecc.
Le intenzioni erano quelle di evitare un contagio, ma al prezzo che anche le misure di precauzione finissero per diventare una condanna.
Gesù smonta questo schema: non solo curava e guariva i malati, gli «impuri», ma anche li toccava e da essi si faceva toccare.
Ne è esempio il brano evangelico odierno dove Gesù è toccato da una donna emorroissa e tocca il cadavere di una bambina: due azioni vietate dalla Legge, eppure qui messe in rilievo come liberanti.
Con questo non si vuole dire che Gesù non rispettasse le regole di purità, ma che, pur rispettandole, sa molto bene che salvare una vita precede qualsiasi altra norma, anche solo di carattere igienico.
Il «Sacro» in Gesù si è fatto vicino alla gente.
Oggi il rischio è quello di cadere nell’opposto: una «confidenza» con Dio e con le «cose sante» (pensiamo ai Sacramenti) che rischia di generare una mancanza di rispetto verso quel mondo.
L’emorroissa e il padre della ragazza morta si avvicinano a Gesù con coraggio ma anche con atteggiamenti del corpo e delle parole che rivelano un rispetto nell’accostarsi a Qualcuno che porta in sé rimandi ad una realtà più grande.
A quella donna affetta da emorragia avevano insegnato a vergognarsi del suo male. Schiacciata da sentimenti spontanei e dalle prescrizioni legali, la donna si vede condannata al nascondimento e alla solitudine. Per questo non sa immaginare altro approccio a Gesù se non quello di un furtivo e rischioso gesto: toccargli di nascosto il mantello. Ma quell’incontro la portò a «dire tutta la verità» davanti a Colui che possiede la sorgente della vita.
Quello sguardo del Maestro che la donna temeva d’incrociare, alla fine le apparve diverso, non severo: «Figlia, la tua fede ti ha salvata».
La narrazione evangelica diventa un invito a non avvicinarsi di spalle al Signore e al Salvatore. La sua è parola che incoraggia a non temere di manifestare la propria vergogna davanti al volto di Dio.
La fede è anche questo: consegnarsi con tutto se stessi, senza paura, perché credere è essere guariti dal proprio male e dalla propria vergogna.
Un’ulteriore messaggio possiamo cogliere dalla vicenda di Giàiro. Gesù ci insegna che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare: «Talità kum», «Alzati». In qualsiasi situazione della vita ti trovi, anche nel punto più basso, Cristo ci tocca e ci dice: «Alzati, risorgi».
Tutti siamo incoraggiati a non aver paura di «disturbare il Maestro», perché grazie a Lui «quel Dio che non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1, 13-15), si è fatto prossimo, vicino alla debolezza umana.
Immagine: Gesù e l’emorroissa, Roma, catacomba dei Santi Marcellino e Pietro (III sec.)