Sap 18,6-9; Sal 32; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48
Per gli amici di Gesù non dovevano mancare i sogni di gloria con i quali si erano confuse le aspettative circa il ‘regno di Dio’. Sogni che devono essersi spenti abbastanza in fretta di fronte alle molte resistenze che apparentemente nemmeno il Maestro riesce a vincere. La sequela dopo una prima esperienza esaltante, per molti dev’essersi rivelata anche una prova di resistenza, minata da mille delusioni, desideri infranti e una certa ingenuità con cui fare i conti.
Forse non tutti, ma certamente qualcuno prima o poi arriva al punto di chiedersi come mai si è rimasti in quattro gatti mentre s’immaginava di dover conquistare il mondo.
È per lenire questi sentimenti prima che si trasformino in un risentito contrattacco militante che Gesù, con tutta la tenerezza di cui è capace («non temere piccolo gregge»), offre un invito alla serenità, prospettando un compimento futuro che supera le aspettative di ogni improbabile paradiso sulla terra.
Il Regno di Dio ha già messo le sue radici in questo mondo.
E nel disporsi al suo servizio è necessario essere pazienti custodi del suo sviluppo e non impazienti creditori dei suoi frutti. Siamo liberi dall’angoscia di produrre noi la manifestazione del Signore! È bene ricordacelo, perché è un attimo diventare irrequieti nell’affrettare l’avvento del regno a costo anche di fabbricarlo con le proprie mani in una ‘fede’ che ha sempre bisogno dei riscontri.
Come narra il Maestro nella parabola, nella storia non è mancata – anche con le migliori intenzioni – la tentazione del servo, siccome il padrone tarda, di creare spazi di dominio perché presi dalla fretta di dare forma a un Regno di Dio altrimenti sfuggente. Prepotenza, prevaricazioni, pedanterie non sono mancate tra i discepoli.
La storia, però, costringe i discepoli ad essere consapevoli che sono tra quelli che il Regno possono solo aspettarlo, invocarlo, magari custodirlo nei suoi fragili germogli terreni, ma mai forzarlo a crescere e dominare.
E così ha ragione Gesù nel dire che è decisivo il modo con cui il discepolo accetta l’attesa della speranza annunciata. E quindi diventa più importante quello che si è disposti a dare («vendete ciò che possedete, fatevi borse che non invecchiano, siate pronti») che non quello che si teme di perdere. L’avvento del Regno di Dio comincia a realizzarsi grazie alla fede di quelli che vi consegnano la vita. Ogni promessa divina comincia a diventare reale con il primo passo di chi le va incontro con decisione.
La ‘fede’, di cui l’autore della lettera agli Ebrei dà una bella definizione («fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede»), è un azzardo che si produce senza garanzie. E forse necessario riconquistare la sapienza del vetro scuro, della penombra misteriosa, della fede che dà sostanza a ciò che non sta alla superficie del visibile.
Dove c’è qualcuno che con libertà si fida di ciò che il vangelo chiede, allora il Regno di Dio è già in mezzo a noi.
Beati dunque quelli che verranno trovati ad agire così.
Immagine: William Congdon, Sahara 12, 1955