Pr 9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58
In queste domeniche le letture ci istruiscono su come in Gesù si compiono le promesse di Dio: è lui il nuovo Mosè che dona il pane vero che discende dal cielo e che fa vivere, a differenza della manna di cui si cibarono i padri; è lui che imbandisce nel deserto il banchetto escatologico promesso dai profeti, al quale possono sfamarsi tutti, non solo i presenti, poiché il pane viene raccolto e custodito anche per chi non c’è; è lui la Sapienza attraverso cui il Padre istruisce per condurre l’umanità alla vita eterna.
Eppure, il compiersi di queste promesse viene esposto al fraintendimento e al rifiuto. Nel capitolo VI del vangelo secondo Giovanni, infatti, assistiamo ad un progressivo indurimento del cuore nei confronti di Gesù. I Giudei prima mormorano per la sua pretesa di essere il pane disceso dal cielo (per loro era semplicemente il figlio di Giuseppe e Maria); ora, «si misero a discutere: come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Già l’incarnazione è scandalosa; ancora di più la pretesa di Gesù di dare la propria carne da mangiare per la vita. La promessa di una vita donata dalla «carne» (che nella mentalità biblica allude alla dimensione di fragilità, povertà, impotenza dell’uomo) è scandalosa.
Com’è possibile pensare di attingere quella vita piena e durevole che l’uomo cerca da una «carne» che condivide la povertà, il limite, la caducità mortale dell’umano?
Sembra più affidabile l’invito della Sapienza: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io preparato» (Pr 9,5). Un pane «altro» rispetto a quello al quale siamo abituati ogni giorno, un vino preparato dalla Sapienza di Dio.
Anche la manna nel deserto aveva suscitato la sorpresa degli israeliti, che non la conoscevano, ma proprio questo suo non essere subito riconducibile all’esperienza umana, al già saputo, rendeva la manna segno della cura provvidente di Dio: davvero era un pane disceso dal cielo.
Ma il pane che Gesù promette come vero cibo «è la sua carne» simile alla nostra.
Come può quella carne essere promessa e garanzia di vita eterna?
Certo, all’immagine del pane e della carne va riconosciuto un linguaggio eucaristico. Ma questo non affievolisce lo scandalo.
L’eucaristia è memoria della Pasqua di Gesù, quindi della croce, della promessa di risurrezione per Colui che si è reso disponibile a cadere nella terra, come il chicco di grano che muore.
A donarci la vita eterna è questo «mangiare», entrare in comunione non solo con la carne fragile del Maestro, ma addirittura con questa carne crocifissa.
L’invito che Gesù ci rivolge è di decidere di essere in comunione con lui non solo attraverso lo scandalo dell’incarnazione, ma attraverso un’incarnazione che giunge fino allo scandalo della Croce.
Potremmo parafrasare le parole di Gesù così: «Il pane che io darò è la mia incerta e minacciata esistenza, offerta perché il mondo abbia vita».
Mangiare la sua carne e bere il suo sangue: credere che così Dio ci comunica la vita, credere che solo una carne offerta nel dono di sé, comunica la vita.
Facendosi pane, Gesù dice il bisogno umano di cibarsi per vivere; ma anche il riferimento ad un’assimilazione interiore, che fa sì che il cibo che mangio diventi in qualche modo carne della mia carne.
Cibandoci di Lui rimaniamo in Lui e impariamo a vivere come Lui: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me». Se crederete, sembra dire il Maestro, conoscerete anche che proprio dalla mia debolezza fluirà la vita, che la morte non può togliere.
L’Eucaristia è questo: rinnovare, nel segno della memoria credente della passione di Gesù, la speranza in una vita che rimane per sempre.
Immagine: Michel Ciry, Cristo in rosso che spezza il pane, (1987)