«Andiamocene oltre»

V Domenica del tempo ordinario

Gb 7,1-4.6-7; Sal 147 (146); 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39

 

All’uomo che si nasconde, Dio domanda «Adamo, dove sei?».

La medesima interrogazione la pone a Dio l’uomo quando incontra la sofferenza, l’ingiustizia, l’assurdità del male che tocca la sua vita o quella di chi gli vive accanto: «Dio dove sei?».

È questo in fondo il dramma di Giobbe: «Notti di affanno mi sono state assegnate… i miei giorni svaniscono senza un filo di speranza» (Gb 7,3.6).

Con queste parole Giobbe percepisce l’inutilità della sua vita, ma ha il coraggio di rivolgersi a Dio ricordandogli della sua responsabilità di fronte all’uomo e alla sua sofferenza: «Ricordati che un soffio è la mia vita…» (Gb 7,7).

Giobbe è l’uomo credente che pone a Dio le domande più scandalose; ha il coraggio di chiedere conto a Colui che sembra contraddire il suo progetto di bene, che sembra disinteressarsi dell’uomo.

È una via pericolosa questa, perché può aprirsi alla speranza, ma può anche precipitare nella disperazione. Non è un cammino dove si matura attraverso risposte, ma una via che interrogativo dopo interrogativo può giungere, per pura grazia, a una luce: cioè intuire che una situazione di dolore, di debolezza, di male può essere occasione dell’incontro tra la libertà di Dio e quella dell’uomo. Quel «ricordati» che Giobbe rivolge a Dio permette di intravedere questa possibilità di incontrare un volto che guardi le sofferenze dell’uomo e se ne prenda cura.

La narrazione evangelica della giornata di Gesù a Cafarnao può essere letta come la risposta di Dio al desiderio di Giobbe. Quel volto divino che l’uomo spera di incontrare nel suo dolore lo scorge nell’umano di Gesù.

Nei primi capitoli del suo vangelo, l’evangelista Marco insiste su questo volto di Gesù che attraverso la sua potente parola sfida il male e la sofferenza in tutte le sue forme. E per questo una folla di uomini e donne si accalca alla porta della casa di Simone, dove Gesù si trova con i suoi discepoli. E il Maestro «guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni…» (Mc 1,34).

Tutti i malati, tutta la città, tutti voglio incontrare Gesù. Forse, in questo modo l’evangelista esprime sì l’entusiasmo ma anche il bisogno universale di salvezza: tutti in qualche modo, prima o poi, si trovano in una situazione di povertà, di smarrimento, di sofferenza.

Tra le varie guarigioni anche quella della suocera di Pietro, gesto di Gesù scandito in tre verbi: si avvicina, la prende per mano e la fa alzare. C’è un chinarsi, un contatto fisico e un passaggio da una situazione di morte alla ripresa di una nuova vita. Per descrivere questo gesto di alzare, l’evangelista Marco utilizza un termine che evoca la resurrezione. Ciò che Gesù ha fatto è un segno: anticipazione della vittoria sulla morte. Il miracolo non è spettacolo, ma rivelazione.

Dopo una giornata così piena, noi forse ci saremmo ritirati stanchi ma orgogliosi e soddisfatti. Gesù, invece, si recò in un luogo appartato, per pregare. Possiamo immaginare quale sia stato il tono di quella preghiera notturna, dopo che, per un giorno intero, Gesù aveva toccato con mano le angosce e le speranze di tanta gente. Ma il Maestro non si lascia travolgere dalle folle che vogliono guarigioni, cerca e trova spazio e tempo di solitudine e di silenzio per pregare: sa mettere un limite alla sua attività, non si lascia sedurre dal fatto che «tutti lo cercano».  Nella preghiera con l’Abbà cerca di capire come comportarsi davanti alle sottili e perverse tentazioni del successo e della popolarità. «Andiamocene oltre»: Gesù sa che ovunque c’è bisogno del vangelo e vuole che i discepoli di ieri e oggi continuino a portare la buona notizia ovunque. Bene l’ho capì Paolo quando scrisse: «Guai a me se non annunciassi il vangelo» (1 Cor 9,16).

 

 

Immagine: Georges De La Tour, Giobbe deriso da sua moglie, (ca. 1650).