Ripartire sottintende un precedente momento di stasi, per svariati motivi, da cui si parte di nuovo. Di per sé è un ritmo normale nella vita che alterna giorni e notti, fatiche e riposo per riprendere energie. Non necessariamente significa novità, se non quando la sosta è stata causata da situazioni di trauma, di sbaglio o abbandono di un percorso.
§In campo ecclesiale si era distinto nettamente tra il percorso personale, che può essere soggetto a deviazioni, pigrizie e altri limiti, che richiedono quindi ripartenze come conversione. A livello comunitario si era cristallizzata l’idea che la Chiesa è società perfetta e quindi stabile, perché riflesso della verità eterna ed immutabile.
Chi propugnava la necessità di rivedere il cammino della Chiesa, orientandone o rinnovandone degli orientamenti, era un eretico. E dalla reazione alla riforma luterana in poi la Chiesa cattolica si trincerò ancora di più nella propria sicurezza di istituzione indefettibile. Per questo quando nel 1950, il teologo domenicano Yves Congar pubblicò “Vera e falsa riforma della Chiesa”, pur con intenti ecumenici, si attirò le ire del Sant’Uffizio romano. Furono anni sofferti prima di arrivare al riconoscimento del Vaticano II, con l’auspicio che la Chiesa “con l’aiuto dello Spirito Santo non cessi di rinnovare se stessa” (Lumen Gentium, 9).
La stagione post conciliare ha utilizzato termini più blandi come rinnovamento e aggiornamento, con resistenze ancorate nella continuità della tradizione, ritenuta garanzia divina, e fughe innovative ascritte ai carismi dello Spirito. Questo clima ha causato tensioni ed anche offerto stimoli di riflessioni più profonde. Tra i tanti interventi di quei decenni si può citare per assonanza del titolo, lo scritto di Enzo Bianchi “Ricominciare nell’anima, nella chiesa, nel mondo”, edito nel 1991.
Il clima trionfante attorno al giubileo del 2000 ha messo in secondo piano le inquietudini ecclesiali di rinnovamento. Ma in modo quasi imprevisto, prima con le tensioni internazionali del terrorismo con tinte religiose e recentemente con la pandemia, la Chiesa si è ritrovata smarrita e svuotata di parole e sicurezze.
Si sente quindi la necessita di ripartire; un po’ meno chiaro è il come e verso dove. Non sono pochi, anche nel clero, che sognano una ripartenza da riti e strutture che, almeno a loro avviso, avevano dato il tono di cristianità nei secoli passati. Vi è pure la possibilità, nei ricambi di responsabilità, per qualcuno di ripartire con ricerca di presunte novità da sindrome dell’anno zero.
Più faticoso è il compito per quanti considerano l’attuale situazione con lo sguardo degli inizi dell’esperienza cristiana, cercando di lasciarsi illuminare dall’ospitalità e santità del Signore Gesù, che si è fatto servo per far crescere dalla sua umiltà la dignità e la speranza di chi ha incontrato. Una via indicata in modo incisivo da Cristoph Teobald ne “Il cristianesimo come stile”. Anche il ripartire può trovare linfa dalla sua radice: Gesù, il Figlio che si è fatto vicino di tenda, perché quanti accolgono la sua vicinanza, siano coinvolti in una crescita di figli di Dio e fratelli dei loro fratelli di questo tempo. La meta di questa ripartenza non ha traguardi immediati di riconquiste sociali e istituzionali, ma ha orizzonti più ampi, quelli escatologici del regno di Dio, di cui la Chiesa non è la realizzazione mondana, ma il segno che orienta il cammino di quanti fin d’ora ne sono coinvolti nel popolo pellegrinate in libertà e comunione.