“La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri” (Gustav Mahler)
In tempi difficili come quelli che stiamo vivendo, spesso ci viene chiesto quale valore abbia continuare a valorizzare e studiare oggetti appartenuti ad un passato lontano. Molte persone hanno difficoltà a vedere nelle opere d’arte una ricchezza che vada oltre il valore economico o la capacità di esecuzione. Eppure – per riprendere le parole di Mahler citate in apertura – queste opere sono le braci per rivitalizzare il fuoco che ci lega a chi è venuto prima di noi e spesso, grazie alla loro storia, ci sanno indicare la via per vivere il presente.
Ecco perché una chiave della ripartenza può essere il recupero delle nostre radici e, in questo caso, delle radici della cristianità sul nostro territorio, fiorita grazie alla presenza di San Dalmazzo, primo evangelizzatore, ricordato da molte opere d’arte in quella che fu l’antica Pedona.
Le più antiche biografie gli attribuiscono un’origine nobile, che lo avvicinano ad un filone agiografico tipicamente merovingico secondo il quale un santo non può che essere nobile. Anche nella pittura del Quattrocento Dalmazzo è rappresentato come un nobile paladino, con spada e mantello, aderendo perfettamente nell’iconografia del cavaliere evangelizzatore. Nonostante la confusione generata poi dalla leggenda della Legione Tebea, i tratti cortesi emergono anche nella più importante raffigurazione che abbiamo del santo: il superbo busto reliquiario in argento realizzato nel 1594 in un atelier piemontese. Secondo Riberi il busto fu voluto da Monsignor Castruccio vescovo di Mondovì, per sostituire il braccio in argento e gemme rubato dai Francesi nel 1552. Un documento del 9 ottobre 1594 racconta di una solenne traslazione delle reliquie presieduta dallo stesso vescovo con tanto di messa solenne e processione per portare il reliquiario a toccare i luoghi confinanti con il territorio di Borgo San Dalmazzo, giungendo fino a Cuneo.
Quest’opera non trova uguali nel panorama piemontese, ma mostra evidenti punti di contatto con la moda in voga alla corte torinese di Carlo Emanuele I, con il gusto per gli spallacci a forma di testa leonina e le acconciature con grandi baffi arricciati. Questi dettagli – per così dire “mondani” – non influiscono però sull’aspetto austero del santo, che mostra nel volto tutta la saldezza della fede che lo condurrà al martirio. In questa ripartenza, lo sguardo risoluto del martire Dalmazzo ci potrà, forse, indicare la strada da percorrere.
Laura Marino, direttore del museo diocesano