La mutevole qualifica di umano

Nel momento in cui ci si affaccia al patrimonio documentario di un archivio la tentazione forte è quella di squalificare molti dei comportamenti riportati dai documenti conservati. La lettura delle scelte del passato ci può turbare, può arrivare a togliere a q

uel modo di agire la qualifica di ‘umano’. L’approccio invece più corretto è quello proposto da don Giuseppe quando dice che “la cultura […] mette il dubbio negli sguardi con cui consideriamo le cose, le persone, le situazioni”.

Il grave errore degli storici improvvisati è quello di non avere il coraggio di ri-qualificare quelle azioni: il mondo è mutato, la società è stata più volte stravolta, eppure l’agire secondo il bene e secondo l’umanità non è mai venuto meno. A noi contemporanei può essere difficile vedere ciò, ma lo sforzo di mutare la visione è richiesto non per giustificare quanto piuttosto per imparare e mettere quel bene al servizio dell’umanità contemporanea.

Un esempio lo possiamo trovare in alcuni documenti conservati presso il fondo archivistico del Seminario vescovile di Cuneo, depositato e in corso di riordino nell’Archivio storico diocesano. Si tratta di due brevi scritti del servo di Dio Nicolò Giovanni Battista Olivieri.

Nato in provincia di Alessandria nel 1792, Nicolò fu ordinato sacerdote nel 1815 e il suo primo ministero lo svolse con particolare attenzione a malati, carcerati e prostitute. Negli anni ‘30 del XIX secolo si interessa del grave problema dei bambini venduti come schiavi in Africa; utilizzando lo strumento del riscatto (metodo in passato utilizzato per liberare i cristiani prigionieri nel mondo islamico) iniziò con “l’acquisto” di un bambino della Guinea, battezzato in seguito con il nome di Giuseppe Santamaria. Il primo passo dopo la liberazione infatti era il battesimo, e forse a noi contemporanei fa storcere il naso; l’intento che muoveva Nicolò era però anche quello di dare un’istruzione. Mediante l’aiuto di intermediari e commercianti, questa operazione prende piede in Egitto e, grazie ai contatti con esponenti religiosi o laici cristiani in Europa, si creò una rete di donatori e di istituti per l’accoglienza di questi bambini e bambine (“beninteso sempre ne monasteri e mai nelle case particolari ed i moretti ne Seminari e Collegi”).

Le due lettere, datate 1858 e 1861, sono indirizzate al vescovo di Cuneo, mons. Clemente Manzini. In queste lettere, simili a molte altre indirizzate a tanti altri soggetti, il sacerdote ringrazia il vescovo per la possibilità di distribuire le messe ai suoi sacerdoti, pur mantenendo il denaro. Queste somme infatti servono per mantenere i bambini liberati: “oggi da qui partirò con 15 morette e cinque morettine. Le morette le collocherò in diversi monasteri della Eminenza vostra tanto desiderata”. A fianco, è presente una nota manoscritta, probabilmente del vescovo, in cui divide tra diversi sacerdoti le messe.

Non sappiamo altro circa risposte del vescovo o iniziative diocesane collegate all’opera di Nicolò. Morì a Marsiglia nell’ottobre 1864, dopo aver riscattato circa 810 tra maschi e femmine.

Nella nostra cultura la liberazione dalla schiavitù e l’istruzione sono veramente azioni qualificabili come umane, al di là di ogni credo religioso. Quello che ci scandalizza è la conversione forzata: non ha senso appellarsi ad azioni svolte in buona fede nel passato per gettare fango sulla fede o sulla Chiesa. La ri-qualifica che è possibile effettuare leggendo tutti i documenti d’archivio credo consista nel saper vedere il tanto bene fatto e nel far tesoro del male per costruire le nostre relazioni sane ed umane. Se scopriamo questo valore degli archivi allora non diventano solo dei depositi di malefatte ed anticaglie, ma serbatoi di insegnamenti e di fede.