Don Giuseppe Elice di Loano è “testimonio e parte dei fatti in quella notte occorsi” presso il Monastero di S. Chiara. In un resoconto indirizzato al vescovo, mons. Clemente Manzini, racconta gli eventi tragici della notte tra il 2 e il 3 agosto 1857, con un ritmo incalzante.
L’antefatto: l’amministrazione comunale cerca da tempo di acquisire quel fabbricato, in nome “del pubblico bene…patria carità”, per farne un’opera di filantropia ed utilità pubblica, sbarazzandosi delle suore dopo “oltre 500 anni di esistenza”. L’autore sottolinea però che è solo una scusa: “che n’era autore unito ed istigatore l’odio secreto contro Cristo e la sua chiesa”, con influenze “dai riformatori alemanni ed anglici, dai sofisti e dai giacobini”. Così, nell’aprile 1857 per 78 mila lire il Municipio acquista l’edificio dalla Cassa ecclesiastica, “bisognosa di pecunia come lupa che dopo il pasto ha più fame che pria”: don Giuseppe fa notare, come purtroppo accade anche ai nostri giorni, che per cifre molto più basse si sarebbero potuti costruire molti istituti simili, senza indebitare ulteriormente il Comune. Un sintomo di una politica attenta a risultati immediati e non a soluzioni realmente più convenienti e, forse, lungimiranti.
Lo sfratto arriva con il decreto governativo “irrevocabile” del 31 luglio 1857: l’unica proroga che il Vescovo riesce a negoziare è lo spostamento del limite al lunedì 3 agosto.
“Giunse la sera del 2 agosto”. Don Elice, insieme all’arciprete di Spinetta ed incaricato del Vescovo don Matteis, si reca in chiesa. Alle 22 inizia l’Adorazione eucaristica delle suore nel coro, a cui segue la preghiera del Mattutino: “queli occhi fissi ora sul Breviario, ora sul Sacramento, quelle flebili voci salmeggianti, quei volti pallidi, ma in cui leggevi la costanza e la rassegnazione”. A mezzanotte sono celebrate due messe, poi “suonano le ore due…all’improvviso si sente un sordo rumore…indizio esser vetture che si avvicinano”. Cala il silenzio e “solo il battito frequente dei cuori rompea quel desolante silenzio”. Si sentono poi gli assalitori aprirsi una breccia nel muro più debole, quello che dava nel cortile rustico.
Entrano, frugano “per ogni angolo del monastero”, cercano le suore, ma trovano solo due suore ammalate e il cappellano, da cui non ricavano alcuna notizia. Trascinano fuori una conversa. Nel frattempo in chiesa la preghiera continua. “Tutto improvviso un colpo gagliardo vibrato nella prima porta che conduce al coro… la porta sembra resistere agli urti alle scosse”. Don Elice spera in un miracolo, ma non avviene: la prima porta viene sfondata, la seconda anche. Gli assalitori fanno irruzione. Di fronte allo spettacolo delle suore in adorazione, sono atterriti. Trascorre qualche istante, poi “una voce pronunzia queste brevi parole: Le faccia tacere”.
Il Delegato della Questura si fa avanti e ordina alla Madre Badessa, suor Maria Vincenza della Chiesa di Cervinasco, di andarsene. Lei in risposta legge la lettera di protesta, ma il suo sguardo “mi indica l’interna lotta”. Alla fine don Elice prende il Santissimo Sacramento, impartisce la benedizione a tutti: “una forza irresistibile costringe pure i loro oppressori ad inginocchiarsi”. Lo ripone nel tabernacolo, si cambia, esce. Le monache “ricevuta la benedizione, come branco di agnelle perseguitate dai lupi, si sbandarono pei corridoi, pei cortili, per le stanze… una nuova lotta era incominciata”. Alla fine escono, distrutte. “Si prende la via per alla volta dell’imbarcadero della strada ferrata”.
Le suore, sempre ben volute dalla cittadinanza e dal vescovo, avranno come destinazione il monastero di Carignano da dove, alcune, ripartiranno per fondare il monastero di Boves. Il loro dimorare in Cuneo finisce nel giro di una notte.
Si tratta di un opuscolo manoscritto, scritto da don Elice qualche giorno dopo gli eventi: dalle parole del sacerdote emerge il carico di emozioni ancora molto forti. In particolare sono presenti numerosi rimproveri ai “cuori sensibili, anime cattoliche” e a “voi, buoni cuneesi, che amo di tanto amore”, a cui è indirizzato anche lo scritto, perché “così preludono ad un’avvenire funesto alla Religione, al Trono (ché l’una è sostegno dell’altro) e al benessere di tutti noi”. Numerose volte, inoltre, traspare il dubbio che qualcuno abbia tradito il Monastero, rivelando la parte più debole del muro o spingendo per lo sfratto. Un dubbio atroce di don Elice che investe sia i cittadini sia i sacerdoti.
È una testimonianza molto preziosa per la storia dei monasteri di Cuneo e anche di Boves, che ci lascia un interessante sguardo sul contesto politico e religioso di quegli anni sia a livello europeo sia a livello locale. Molto stimolanti e quanto mai moderne sono le riflessioni critiche dell’autore riguardo alla posizione dei cattolici, ad iniziare dalle Amministrazioni, di fronte al sopruso, alla tragedia: dimorare significa anche schierarsi secondo i principi della propria coscienza, senza rimanere spettatori esterni o, peggio, tradire, per un tornaconto personale.