Il potere delle immagini

L’affermazione di Malraux, apparentemente paradossale, apre in realtà profondi interrogativi sul reale significato delle opere d’arte e sul loro ruolo nei confronti della comunità: semplici elementi decorativi, virtuosismi tecnici, emanazioni del gusto dominante, corredi di illustrazione ai sermoni e alle letture, vere e proprie preghiere dipinte o scolpite? Ognuna di queste declinazioni appare valida, ma non esclusiva e va attentamente valutata quando si tratta di stabilire il valore (non economico ma intrinseco) di un’opera d’arte. Prima che il pennello si posi su una tela o lo scalpello sul legno, sono avvenuti molteplici passaggi che hanno portato un personaggio o una comunità a commissionare l’opera, spesso sulla spinta di cambiamenti storici di portata globale. Oggi vediamo il risultato tangibile di queste scelte, ma le cronache e i contratti lasciano immaginare serrati dialoghi tra i membri di una confraternita o di una parrocchia per giungere alla designazione di un determinato autore, di uno specifico soggetto, della posizione di un edificio: talvolta si attendono anni perché un pittore sia disponibile, quasi sempre si danno indicazioni meticolose su cosa deve essere raffigurato e come, in alcuni casi si sacrificano abitazioni e possedimenti per trovare spazi adatti alle nuove architetture. Tutte scelte complesse, spesso coraggiose, ma contemporaneamente rispettose dell’eredità di chi è venuto prima; in continuità con il passato, ma con lo sguardo al futuro perché ognuno di noi è solo un anello di una catena lunga secoli.
Uno dei momenti maggiormente fecondi sotto questo punto di vista fu certamente l’epoca barocca: travagliata da guerre sanguinose ed epidemie devastanti, quest’età seppe investire nella trasformazione e nel rinnovamento, mettendo a frutto le profonde riflessioni emerse dal Concilio di Trento. Gli spazi sacri divennero non solo luoghi di incontro e preghiera, ma palestre dove esercitare il potere delle immagini: elementi architettonici, tele, sculture furono rinnovati profondamente e si trasformarono in frasi di un unico potente sermone in grado di coinvolgere gli animi e muovere le coscienze con una forza nettamente superiore alle parole. La teatralità barocca che tanto ci affascina non è infatti semplicemente un esercizio di bravura degli artisti o un’ostentazione di ricchezza dei committenti: le volte delle chiese che magicamente si aprono sulle nostre teste non fanno che mescolare – con arditi trompe-l’oeil – lo spazio terreno a quello celeste, coinvolgendo il fedele che volge gli occhi in alto nel grande disegno divino. Le monumentali figure disposte a piramide nelle tele che campeggiano sugli altari costituiscono un collegamento visivo tra il devoto in preghiera e la divinità, un filo diretto intangibile. Le sculture in movimento portate in processione, i grandi angeli che affiancano le ancone, i visi dei committenti che ci scrutano dai dipinti non fanno che creare una relazione, mettere in gioco sentimenti, entrare in relazione con chi le osserva in un coinvolgimento che è dialogo e crescita.
In questo senso, la lezione del passato può essere un segnavia per il nostro presente, nell’ottica di un rinnovamento condiviso basato sul confronto delle molteplici voci delle comunità, con lo sguardo rivolto ad una scena di cui siamo attori e non semplici spettatori.

Laura Marino, direttore del museo diocesano