Ez 47, 1-2.8-9.12; Sal: 45; 1 Cor 3, 9c-11.16-1; Gv 2, 13-22.
La celebrazione delle domeniche del tempo Ordinario conosce un’altra pausa, dopo quella di domenica scorsa. Si ricorda infatti in questa domenica ciò che avvenne il 9 novembre del 314 d.C., quando a Roma il papa Melchiade consacrò la più antica delle chiese dell’Occidente e la prima cattedrale della storia, ovvero la basilica di san Giovanni in Laterano. Essa fu costruita nelle proprietà donate a questo scopo dall’imperatore Costantino di fianco al palazzo Lateranense, fino allora residenza imperiale e poi residenza pontificia fino al 1585. Originariamente fu una festa solo della città di Roma. A partire dal XII secolo, la celebrazione fu estesa a tutte le chiese di rito romano per onorare la basilica definita chiesa Madre di tutte le chiese”, come segno di unione con la cattedra di Pietro.
Tale festa può essere quindi d’aiuto per una riflessione sulla Chiesa.
In relazione al tempo in cui si vive, su questa tema proviamo a fermarci su due parole Utopia e disincanto.
Lo scrittore Claudio Magris, intitolando anni fa un suo libro con i due termini sopra citati, esprimeva la tesi che i sentimenti da cui nasce il disincanto e gli slanci che animano l’utopia non sono atteggiamenti alternativi, bensì disposizioni complementari, che impediscono al disincanto di essere puro cinismo e all’utopia mera illusione.
«Disincanto» significa non rimuovere il tragico che contrassegna tanto l’esistenza dei singoli quanto la logica della storia, mantenersi all’erta di fronte agli incanti facili che animano i superficiali felicismi dei nostri sogni più infantili (tra i mulini bianchi della predicazione pubblicitaria e i paradisi in terra dei grandi disegni ideologici), e non sorprendersi della cruda resistenza che i fatti oppongono sempre ai nostri desideri, saper prendere la realtà per quella che è, come insegna nella Scrittura la voce di Qoelet, schietto poeta delle misere cose di tutti i giorni e delle perenni miserie di tutti i tempi, dei crimini che non finiranno mai e del male che, sulla terra, non ci lascerà mai in pace. Chi non ha questa familiarità – scrive Magris – è facile preda del cinismo quando l’incanto facile rivela le sue crepe, e infine si infrange.
«Utopia» significa «non arrendersi alle cose così come sono, e lottare per le cose così come dovrebbero essere», rifiutare il falso realismo che scambia la facciata della realtà per la realtà intera e, privo di una speranza non prodotta dall’uomo, assolutizza il presente e non crede che esso possa cambiare; significa non dimenticare le tragedie della storia, le fatiche di chi ha il diritto di chiedere un’altra Storia, di poter giocare un secondo tempo o di vedere una seconda proiezione in quella strana pellicola che è il film della vita.
Il disincanto che corregge l’utopia, e l’utopia che rianima il disincanto, rafforzano la speranza, quell’insopprimibile necessità di riscatto di chi mormorando esprime con la parola il rancore che maledice la vita.
«Dietro le cose così come sono» scrive Magris «c’è anche una promessa, l’esigenza di come dovrebbero essere; c’è la potenzialità di un’altra realtà, che preme per venire alla luce».
Come don Chisciotte ha bisogno del suo Sancho Panza, non esiste utopia che non abbia un suo complemento nel disincanto, non esiste speranza che non sia radicata nel terreno dell’effettivamente reale, quello che richiede uno sguardo libero, obbediente, e penetrante sulla realtà.
Se questa è la miscela di cui ha bisogno il cammino del mondo, non ne ha meno necessità quello dei cristiani, e il loro affaccendarsi per le cose di Chiesa.
Mentre si cammina, utopisti e disincantati conversano tra di loro. Gli uni elencano con realismo le cose su cui non possiamo più contare, e provano rincrescimento per tutto ciò su cui non possiamo più scommettere, e hanno l’accento fisso sul senso della perdita. Gli altri si prodigano nell’immagi- nazione di qualcosa che sembrano vedere solo loro, una Chiesa del futuro che brilla nella luce dei sogni, del «non ancora» che comunque «già» lascia dei segni nei sentieri della storia.
Il loro colloquio può essere un’immagine di ciò che s’intende per cammino «sinodale».
Sarebbe fatale, invece, vedere prevalere la pigrizia di quelli che presi dallo scoraggiamento non possiedono più il senso dell’utopia, cioè del desiderare ciò che potrebbe essere se solo un po’ lo volessimo.
Se prevalesse questo sguardo, si rischierebbe di restare ancorati ad una immaginaria perennità dell’esistente, convinti che non può esserci una Chiesa migliore, che questa è l’unica che c’è, che tanto vale tenersela così com’è.
Potrebbe essere questa una forma di nichilismo, che può annidarsi anche tra i discepoli, dove si resiste a chi, nella comunità ecclesiale, prova a rinnovare il dialogo tra ciò che si deve accettare come un limite della storia e quello che non si può non desiderare come un riscatto dovuto.
Sottrarre spazio a una tale inerzia è uno degli sforzi più ardui della comunità ecclesiale di oggi.
Immagine: La cattedra del Papa nella basilica lateranense
