2Re 5,14-17; Sal 97; 2Tm 2,8-13; Lc 17, 11-19
La prima lettura per alcuni versi ha del comico.
Naaman, uomo ricco e potente, trova una soluzione per la sua malattia ascoltando il consiglio di una schiava che gli fa sapere che c’è un profeta in Samaria che potrebbe guarirlo. Naaman si reca così dal re di Samaria, pensando che sarà questi a compiere il prodigio, ma il re non può far nulla. Naaman, dunque, si reca da Eliseo il quale non solo non si degna di uscire dalla casa per incontrarlo, ma in tutta risposta gli manda a dire che per guarire deve fare una cosa banale: bagnarsi sette volte nel fiume Giordano.
Di fronte a tale proposta, il comprensibile sdegno di Naaman: prima si era recato dal re pensando che sarebbe stato lui, uomo di rango e di potere, a liberarlo dalla lebbra; ora sta fuori della casa di un profeta, che non solo non lo riceve, ma gli dice di andare a fare un bagno in un fiume che non sembra avere nessuna proprietà curativa e anzi, come lui stesso dice, a questo punto tanto vale bagnarsi nei fiumi di Damasco, migliori di tutte le acque d’Israele.
Pieno di sdegno e di delusione decide di tornarsene a casa con la sua lebbra. E di nuovo, sono i servi a consigliarlo: «Che ha da perdere nel fare per sette volte un bagno, tra l’altro siamo anche sudati e sporchi, almeno ci si rinfresca un po’».
Naaman va, si bagna per sette volte nel Giordano e guarisce.
Interessante è notare che questo ricco e potente comandante dell’esercito per ben due volte dà ascolto a dei servi, accetta di farsi curare seguendo il consiglio di chi non conta niente.
Contento della guarigione ottenuta, ritorna dal profeta con un dono per ringraziarlo, ma Eliseo non vuole niente. Allora Naaman gli chiede di prendere con sé della terra per poter adorare il Dio di Israele anche nel suo paese. Naaman ha compreso chi è il vero guaritore e cosa in realtà gli ha permesso di guarire: l’aver creduto a una schiava, a un profeta e a dei servi e, in tutto questo, l’essersi fidato del loro Dio. Eliseo, in questo modo, dice che il miracolo non è legato a luoghi sacri, a riti misteriosi; ciò che guarisce è l’obbedienza alla Parola.
Nel Vangelo il finale è simile. Non ci sono qui potenti, ma dieci lebbrosi che chiedono a Gesù di essere guariti. In tutta risposta il Maestro li invita a presentarsi ai sacerdoti, secondo le leggi di purità deputati al riconoscimento dell’avvenuta guarigione. Questi, dunque, non sono ancora guariti, ma accogliendo l’invito di Gesù si ritrovano, di fatto, guariti lungo il cammino.
In situazioni dove non sembra esserci speranza, vi è però un incontro, l’accoglienza di una parola, l’apertura ad una relazione: Naaman dà fiducia al consiglio della serva, a quello dei suoi servi e infine al comando del profeta; così anche i dieci lebbrosi accolgono l’invito, obbediscono alla parola di Gesù.
Quella del vangelo porta con sé anche una storia di ingratitudine.
Ma non riduciamo il messaggio di questo brano ad una lezione di galateo: ricordarsi di dire grazie a chi ci ha beneficato.
Innanzitutto, è da evidenziare come i segni distintivi, normali e non eccezionali, con cui nella storia cresce il Regno di Dio si annunciano nella dignità ristabilita, nella ferita medicata, nel pianto consolato, nella giustizia, nella verità rispettata, nel corpo soccorso, custodito, protetto. È così che Dio viene alla storia, che Gesù si annuncia Figlio del Padre, è qui che ogni credente vede la promessa di un riscatto: ovunque si producano segni di grazia, cura, prossimità, sollecitudine, dedizione.
Poi, il punto clamoroso sta nel fatto che il solo a riconoscere l’evidenza di questi segni è il solito samaritano di Luca, che incarna sempre il volto dell’estraneo, dello straniero, dell’eretico, del marginale, del lontano. Mentre gli altri nove, che appartengono per diritto al gregge degli eletti, e che proprio per la loro condizione di impurità e isolamento sarebbero i primi a dover spalancare gli occhi dopo questo incontro rigeneratore, sono quelli che una volta guariti spariscono in fretta.
In trasparenza affiora la questione di un popolo eletto e in perenne attesa messianica, che in Gesù non sa proprio riconoscere quello che cerca da secoli, mentre schiere di impuri e di pagani ci vedono una grazia che cambia la loro vita. Solo nella mente e nel cuore del samaritano è brillata una luce nuova: ha capito che Gesù era più che un guaritore. Nel suo gesto di salvezza ha colto il messaggio di Dio. Ha sorprendentemente intuito che Dio ha inviato colui che i profeti hanno annunciato, colui che apre gli occhi ai ciechi e le orecchie ai sordi, che fa camminare gli storpi, risuscita i morti e sana i lebbrosi. Ha intuito che non è vero che Dio sta lontano dai lebbrosi, che li sfugge. Ecco la cosa da dire a coloro che istituzionalizzano, in nome di Dio, le emarginazioni.
Ma questa storia può rivelare anche la grettezza di certi nostri discorsi, della fatica che si fa a capire che ogni volta che si protegge la vita di uno solo si edifica l’umanità di tutti. A dimenticarsi di questo criterio sono sovente i devoti, i difensori dell’ordine e della tradizione, quelli che Gesù ama provocare (mancavano forse lebbrosi ‘dei nostri’ perché Eliseo andasse a guarire un siriano?).
Nell’uomo graziato da un gesto di cura, nelle storie sbilenche di soggetti in cerca di una buona parola, nell’accoglienza delle fragilità e nella comprensione delle colpe, spesso la religione vede solo un’offesa all’aura del sacro e una provocazione all’integrità del precetto. Accecata da questi paraocchi essa non capisce, non vede, non si stupisce, non gioisce, non ringrazia. Poi, arriva un semplice estraneo, uno che sta in mezzo agli altri perché è un uomo come tutti, e si sente grato anche solo per una parola buona detta al momento giusto.
Immagine: miniatura del Codice aureo di Echternach, La guarigione dei dieci lebbrosi, XI sec.