Zucal, Filosofia della nascita, Morcelliana, Brescia 2017

«Essere per la morte» o «essere per la nascita? Siamo fondamentalmente esseri «mortali» o «natali»? Silvano Zucal, professore di Filosofia teoretica e Filosofia della religione all’Università di Trento, fa notare come il panorama filosofico del Novecento «sia stato dominato da un ritorno davvero imponente della tanatologia filosofica, da Martin Heidegger a Max Scheler, da Vladimir Jankélévitch a Paul Ludwig Landsberg», fino a porre «in evidenza lo statuto esistenziale dell’Esserci umano come “essere-per-la-morte” (Sein zum Tode), per usare il linguaggio heideggeriano» (p. 7). Nella filosofia del secondo Novecento, però, c’è stata una significativa ripresa della tematica che mette in rilievo la nascita, e non la morte, come cifra fondamentale dell’uomo.

L’autore vuole porre l’attenzione su quest’ultimo punto e, dopo un capitolo introduttivo, contrappone sei capitoli legati a una visione tragica del nascere a cinque capitoli che ne sviluppano una visione luminosa. Qui, in questa luce e in questa sacralità – per dirla con Hölderlin –, l’essere umano, rimanendo orientato verso la propria «sorgente nativa», non smette mai di riconoscere nell’«essere-per-la-nascita» il suo statuto esistenziale.

I sei capitoli dedicati alla visione tragica del nascere si aprono con la lezione della grecità: «Meglio non essere nati», recita il celebre detto di Sileno. Si passa poi all’Antico Testamento, dove, con riferimento ai libri di Geremia, Giona, Isaia, Giobbe e Qoelet, la nascita viene vista in maniera negativa e viene persino maledetta: «Perisca il giorno in cui nacqui» (Gb 3,3). Il quadro cambia radicalmente nel Nuovo Testamento, con l’annuncio della nascita di Gesù: «nascere è la premessa di una perfetta letizia». Ma a questa visione si contrappone quella dello gnostico, che «anela al ritorno a quello stato che precedeva quella sua “maledetta nascita” che lo ha condotto nel mondo, nel tempo e, soprattutto, lo ha reso un essere corporeo» (p. 118). Poi, in età tardo-cristiana e medievale, la nascita assume caratteristiche negative, perché macchiata dal peccato, e questo diventa un vero e proprio topos medievale. L’autore prende infine in considerazione due filosofi del Novecento, Emil Cioran e Günther Anders, che colgono nella nascita la vera maledizione dell’esistenza.

I capitoli dedicati alla visione luminosa del nascere si aprono con il filosofo Peter Sloterdijk, che «ha còlto, fin da subito, come un grave problema filosofico […] la mancanza di un approccio teorico all’evento della nascita in tutte le sue possibili implicazioni» (p. 235). Egli infatti ha ritenuto la nascita come «il punto in cui convergono la filosofia dell’esistenza, la psicoanalisi e buona parte della storia della cultura» (ivi), rivoluzionando la celebre definizione di Martin Heidegger dell’esserci, «essere-nel-mondo», con la formula più dinamica «venire-al-mondo». Poi l’attenzione si rivolge ad Hannah Arendt, che viene presentata come la «madre del pensiero della nascita»: il nascere è proposto come «autoaffermazione libera da parte di ogni uomo che viene al mondo», costituendo una «vera e propria “inizialità” sorgiva» (p. 316).

Dopo aver esaminato la fenomenologia della nascita in Michel Henry, Jean-­Luc Marion ed Emmanuel Levinas, l’autore espone il pensiero di Maria Zambrano, la quale evidenzia che l’uomo è «destinato a una “nascita interminabile”» (p. 433); come destinatario del dono della vita, egli è anche investito dell’impegno «inderogabile di vivere» la vita, assumendola «in una traiettoria di continue rinascite»: infatti, «senza le rinascite, la vita si insterilisce e muore» (p. 434).

L’ultimo capitolo è dedicato a Romano Guardini, per il quale l’elemento decisivo è l’autoaccettazione (Selbstannahme), ossia l’essere d’accordo di esistere, l’accettazione piena della nascita in chiave fiduciale, che però ha bisogno di essere sostenuta dalla fede. Nella prospettiva di Guardini, «l’accettazione autentica è possibile unicamente in ordine a un’istanza in cui ci si possa [davvero] fidare, ed essa è il Dio vivente. […] Solo così la nascita sarà una benedizione e non l’oggetto di una maledizione come nella sentenza silenica» (p. 520).