TOMÁŠ HALÍK, Il segno delle chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo

Il nostro mondo è malato. Non mi riferisco soltanto alla pandemia del coronavirus, ma allo stato della nostra civiltà, che questo fenomeno globale rivela. In termini biblici, è un segno dei tempi.
All’inizio di questa insolita Quaresima molti di noi pensavano che l’epidemia avrebbe portato a una sorta di blackout a breve termine, a un’interruzione delle abituali attività sociali che in qualche modo avremmo affrontato e poi le cose sarebbero tornate come prima.
Non andrà così. Anzi, se tentassimo di farle tornare come prima, non sarebbe un bene. Dopo questa esperienza globale il mondo non sarà più lo stesso, e probabilmente è giusto così.
È naturale che in momenti di gravi calamità ci preoccupiamo innanzitutto delle necessità materiali per la sopravvivenza, ma «non di solo pane vivrà l’uomo». E allora è forse giunto il momento di prendere in esame le implicazioni più profonde di questo colpo inferto alla sicurezza del nostro mondo. Potremmo dire che l’inevitabile processo di globalizzazione abbia raggiunto il suo picco: la vulnerabilità globale di un mondo globale s’è
fatta evidente.