Può stupire il fatto di trovare un discreto numero di pubblicazioni di diritto e di morale sul restituire. Questo atto era normalmente collegato ai comandamenti: non rubare e non desiderare le cose altrui. Era inteso come parte più generale della virtù della giustizia, che veniva inteso più o meno come «dare ad ognuno quanto gli spetta», tradotto spesso nell’atteggiamento di farsi gli affari propri, con risultati che giustificavano l’arricchirsi dei soliti furbi e l’indifferenza verso chi non riusciva a sbarcare il lunario.
In questo campo è stato molto importante la riflessione avviata in particolare da francescani su forme concrete di solidarietà, che si aprivano alla possibilità del prestito di denaro, considerato fino al 1300-1400 solo come usura. Tra questi pensatori si distinse il nostro Angelo Carletti, giurista fattosi frate, che affrontò la questione non solo della liceità del prestito, ma del suo valore sociale, se regolato da norme eque, diventando una forma di carità cristiana. Con i suoi trattati De restitutionibus e De contractibus, egli fu tra i teorici che meglio propugnarono la fondazione dei Monti di Pietà, come istituti di beneficenza, collegati per lo più alle attività di confraternite o di pie associazioni. Queste sue opere venero ripubblica a fine settecento nell’epoca dei lumi, quando ormai l’economia prendeva il largo dalla morale cristiana e dalla giustizia pubblica, diventando essa stessa legge base della società attuale guidata dal mercato, cioè dal profitto.
Può essere quindi utile collegare un passo ulteriore nella riflessione cristiana proprio la considerazione del valore di ogni persona, per poter ritrovare un nuovo concetto di giustizia, non puramente misurata sulla proprietà delle cose, ma sulla dignità, che a sua volta non dipende da nobiltà, cioè dal potere personale o del proprio clan. Di conseguenza si percepisce che il senso del restituire non è si radica solo sulla valutazione di ciò che si è ricevuto. Ed inoltre la giustizia sociale non si può tradurre nella pretesa di avere quello che altri hanno in misura più abbondante. In termini più spiccioli si arriva alla mentalità corrente che tutto mi è dovuto, altrimenti faccio la rivoluzione per essere alla pari dei ricchi!
Quindi tra il ricevere ed il restituire è necessario un equilibrio interiore tra la pretesa ed il dono, a partire dalla percezione della propria esistenza come frutto gratuito di relazioni. La via per tale lavorio è stata ricercata da maestri spirituali, ed espresso ad esempio in un piccolo trattatello di Gioacchino Pecci (futuro papa Leone XIII): La pratica dell’umiltà. Scrisse questo opuscoletto per i preti, quando era vescovo di Perugia, per richiamarli dal rischio della superbia di chi intraprendeva la carriera ecclesiastica. Il servizio per il regno di Gesù Cristo è un dono da restituire nell’umiltà: «interiore e inesausta sorgente di tutte le virtù». Restituire non è solo un capitolo della giustizia sociale, ma è un segno della misericordia, la più radicale e sconvolgente gratuità praticata da Gesù Cristo.