Perché la pandemia non sia solo una parentesi per il cristianesimo

La fede e la Chiesa sono state messe a dura prova dalla pandemia. Concretamente la desertificazione delle celebrazioni della Messa, la diaspora dei cristiani, l’ossessione ecclesiale di essere presenti in ogni luogo sociale e politico, l’incontro con la mascherina, i vaccini, l’immagine di Dio. La pandemia non può essere una parentesi. Chiusa una volta per tutte con la riapertura delle chiese e il ritorno alla Messa in presenza rispetto a quelle online che durante marzo e aprile 2020 hanno segnato la vita dei cristiani. Cosa possiamo imparare da questa situazione? Come possiamo concretamente muoverci?

A queste domande ha cercato di rispondere don Duilio Albarello durante il corso di aggiornamento degli Insegnanti di Religione Cattolica delle cinque diocesi della provincia di Cuneo che si sono radunati all’Istituto Superiore Vallauri di Fossano venerdì 27 agosto 2021. Ecco alcuni passaggi del suo intervento.

In questo periodo di pandemia mi è tornata in mente la pagina di Matteo in cui Gesù dice: «nessuno mette un pezzo di stoffa grezza sul vestito vecchio, lo strappo diventa peggiore. Non si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti questi si spaccano. Si versa vino nuovo in otri nuovi». Questa immagine chiede un rinnovamento profondo, non c’è una cristianità migliore di tutte quelle possibili identificata con ciò che i cristiani hanno fatto finora. Ci vuole un’inversione di rotta e questa trasformazione non accade in modo spontaneo, ma richiede un investimento attivo.

C’è bisogno di uno spirito di riforma pure per la Chiesa, anche se non è scritto da nessuna parte che ne usciremo migliori, tutto dipende dalla nostra risposta, modellando valori e priorità. Due immagini chiave possono aiutarci a leggere la situazione pandemica e la provocazione della conversione richiesta ai cristiani e alla Chiesa.

La prima immagine è del 27 marzo 2020 durante la veglia di preghiera di Papa Francesco in piena pandemia. La notte intorno, la piazza vuota, il Papa che attraversa da solo la pizza per arrivare all’altare. Un evento seguito da moltissime persone. Sono stato colpito da un aspetto. Il Papa non ha avuto timore di riproporre il linguaggio del sacro: ha letto l’episodio della tempesta sedata, ha esposto il Santissimo ed è rimasto sospeso in un lungo in un interminabile silenzio. Non ha avuto paura di usare il sacro nella grammatica della religione. Una parola che provoca, un rito che interpella, un silenzio che vivifica. Il Papa non è scaduto nell’immagine del Dio della magia, ma ha riproposto il Vangelo. Cosa vuol dire invocare Dio durante la pandemia? Il Gesù dei Vangeli non esonera dai problemi, non evita il controsenso del male e della morte. Gesù insegna ad attraversare l’ingiustizia del male tenendo gli occhi sulla giustizia del Padre. Più grande dell’ingiustizia. L’impotenza del crocifisso domina il negativo indicando l’unica via: continuare a sperare contro ogni speranza. Sperando faccio già esperienza di salvezza, come dice san Paolo. La pandemia impartisce una lezione importante: ripensare l’immagine convenzionale di Dio. C’è chi ha detto che è stato Dio a mandare la pandemia, ma dal punto di vista del Vangelo non è stato Dio, semmai il comportamento degli uomini e il rapporto sregolato con l’ambiente naturale. Così come non l’ha mandata non può essere lui a fermarla con un’azione spettacolare. Nel caso dell’epidemia che ci colpisce mi sembra che la cura sia l’opera umana da rivalutare, non solo nelle terapie mediche, ma come buona pratica della dedizione fraterna. Ci impone di rispettare le diposizioni per evitare il contagio, compreso il vaccino. Anche il Papa ha definito ricevere il vaccino come un atto di amore per sé e per gli altri. Trovo scandaloso che 10.000 docenti piemontesi non si siano ancora fatti vaccinare. Non c’è libertà senza responsabilità verso gli altri.

La seconda immagine è quella delle chiese vuote durante il lockdown di marzo e aprile 2020. Svuotate dal divieto sanitario. La chiesa si è trovata ad uscire dalle chiese. Ha perso la modalità liturgica di espressione e ha dovuto lasciarsi trasportare fuori in un movimento di diaspora. In Europa è un movimento già attivo da tempo. La secolarizzazione ha sgretolato la cristianità: l’appartenenza ecclesiale e civile si sono staccate, cambiando i connotati dell’identità cristiana. L’occupazione integrale degli spazi viene meno. Una visibilità che chiede un primato. Invece ritrovarsi nella diaspora significa che l’identità cristiana si caratterizza nella dispersione nel corpo sociale. Sale e lievito nella rete delle relazioni. L’ossessione per la visibilità egemonica lascia lo spazio per un’invisibilità feconda, a misura di casa e non di basilica. La comunità dei cattolici si è ritrovata in casa nel primo lockdown. Gesù ha immaginato qualcosa di molto simile per il suo piccolo gregge. Lo svuotamento forzato delle chiese ha permesso di cogliere che la pandemia virale ha ottenuto in poche settimane ciò che in decenni di secolarizzazione non si era prodotto. Anche in Italia ci ha costretti ad ammettere che la cristianità pre-pandemia non è la sola forma del cristianesimo. La liturgia è stata toccata nel profondo. Nella Chiesa cattolica la pratica liturgica si è identificata con la celebrazione dei sacramenti come la Messa, pronta all’uso per tutte le occasioni. Quando l’emergenza ha reso impossibile la celebrazione è cascato l’intero impianto, e sembrava che non ci fosse più nulla. La prossimità dell’altro è stata vista come un problema: la mascherina, il distanziamento, la mancanza del contatto del segno di pace. Si sono formate delle isole distanziate durante le celebrazioni, ma già prima del Covid sembrava essere così. La mascherina ha gettato via la maschera. Non basta tornare come prima perché non era il migliore dei mondi ecclesiali possibili. Va versato vino nuovo. C’è una conversione da mettere in atto. A differenza della formula per cui il sacramento è fonte e culmine dell’esperienza cristiana, bisognerebbe rimettere in rapporto il rito e la vita. La vita non si esaurisce nel rito perché ad un certo punto la Messa è finita e bisogna andare in pace. San Paolo esorta a offrire «i vostri corpi come ostia vivente gradita a Dio, questo è il culto adatto a voi». Il culto adatto al cristiano non è immediatamente il rito che si celebra ma il corpo che si dona nei gesti della cura, tenerezza, misericordia. Perché questo tempo non sia solo una parentesi, ma ci insegni un modo diverso e più corrispondente alla testimonianza di Gesù.