Oblio della sofferenza?

Perché mai si dovrebbe ripartire dalla sofferenza? Cancelliamo, dimentichiamo la sofferenza, consegniamo all’oblio ogni sua traccia! Gli archivi invece sono pieni di tracce di sofferenze. Nell’Archivio storico diocesano la più evidente è l’insieme delle copie dei registri parrocchiali degli atti di morte, oltre che i registri dei bambini esposti. Leggendo altri documenti emergono sofferenze più quotidiane legate a situazioni di povertà.

A titolo di esempio, si porta all’attenzione un fascicolo dal fondo archivistico della Curia vescovile: l’unità 1768 contiene alcuni attestati di decesso sul fronte della Prima guerra mondiale. Si tratta di certificati rilasciati dalla Segreteria di Stato pontificio, tra il 1919 e il 1920. Ognuno riporta i dati identificativi conosciuti del soldato (nominativo, paternità, luogo di nascita), insieme all’indicazione del reggimento di appartenenza; seguono la data e il luogo della morte, ed infine la causa e il luogo di sepoltura (se conosciuti). La sofferenza emerge solo ad un’attenta lettura: si pensi innanzitutto che questi soldati non avevano più dato notizie alla famiglia e solo il lavoro della struttura ecclesiastica ha permesso ai congiunti di ricevere informazioni. La guerra inoltre lascia segni incancellabili nei soldati, soprattutto se, come molti di questo fascicolo, sono morti in un secondo tempo, per malattie contratte nei campi di prigionia o per ferite.

Questi certificati non sono solo un atto amministrativo, sono documenti che parlano di una vita. E nella vita è compresa la sofferenza. Perché allora conservare tracce di sofferenza? L’oblio è la soluzione troppo facilmente invocata, ma incompresa nel suo significato più autentico: ripartire dalla sofferenza, leggendo le testimonianze della memoria, significa «dire il male senza collera» (P.Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina 2000, p.646). Detto in altri termini: non fossilizzarsi sul dolore inflitto e subito, ma saper costruire nuova vita dalle ceneri della sofferenza. Una memoria che cancelli la sofferenza è una memoria malata: l’oblio, definibile come ars oblivionis, può fornire nutrimento sia al ricordo sia alla vita presente.

In un tempo di ripartenza, anche nell’ottica sinodale, fare memoria della sofferenza è strumento più che utile per costruire un futuro sano. Gli archivi sono i custodi della memoria nella sua complessità e richiedono di essere (ri)scoperti con pazienza e serietà.

Martino Dutto