La fede in una storia ferita

II Domenica di Pasqua (Anno A)

At 2,42-47; Sal 117; 1 Pt 1, 3-9; Gv 20, 19-31


Gesù Risorto, senza alcun spirito di rivalsa, mostra ai discepoli le ferite della croce. È importante questo suo gesto, sia da un punto di vista umano che teologico. Una storia ferita la sua, come del resto quella dell’Abbà, dall’incomprensione umana.

Che cosa strana per noi che immaginiamo il divino come la perfezione assoluta e quindi pura, senza ferite. Ma sull’umano la pensiamo allo stesso modo: la tensione verso la perfezione rende normalmente inaccettabile una ferita.

Anche se, alla sera della vita, saranno proprio la stanchezza e le ferite a dire a noi stessi e agli altri che abbiamo vissuto la vita.

La cultura occidentale sembra segnata dalla convinzione che la ferita, anche se accettata, vada cancellata il più presto possibile. Resta vero, però, che «tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo» (Italo Calvino). Certi nostri comportamenti, nel bene come nel male, sono la conseguenza di una ferita, fisica o dell’anima, uno di quei dolori silenziosi che ciascuno si porta dentro e che, al pari delle ferite visibili, sono altrettanto scomodi sebbene invisibili, altrettanto dolorosi sebbene ricoperti.

In molti dialetti un vaso rotto si dice ciaccato. La vita delle persone può essere ciaccata, una lacerazione può aver compromesso l’integrità di quella esistenza. Il rischio è che le ferite ci trasformino in qualcuno che non siamo. Sicuramente ci cambiano, ma rischiano di cambiarci troppo, tanto da trasformarci in altre persone.

Se si rompe una tazzina, un piatto, noi siamo soliti cercare la colla più trasparente possibile di modo che incollando i pezzi non si vedano le fratture.

In alcune culture orientali, invece, quando un oggetto in ceramica si rompe, si ripara con l’oro, poiché si è convinti che un vaso rotto riparandolo possa diventare più bello di quanto non lo fosse in origine. In Giappone per riparare i vasi di ceramica si usa la tecnica del Kintsugi che prevede di incollare i frammenti rotti e di spolverare le crepe visibili con polvere d’oro. L’esito finale è un vaso con striature dorate che lo rendono più prezioso e unico. Una tecnica di riparazione che valorizza le crepe e non le nasconde. Come le stelle che rendono più bello e prezioso il cielo se è vero che «le stelle sono le cicatrici dell’universo» (così il poeta R. Maye).

Le crepe del vaso, come le nostre rughe o le ferite fisiche e dell’anima, se da un lato non vanno cercate, dall’altro non dovrebbero essere nascoste né mimetizzate.  È importante dare valore agli effetti di un dolore (fisico e non), partire da esso per rinascere, anche se non più perfettamente integri, diversi da come eravamo prima. Il dolore dovuto a una ferita non è dolore sterile del quale vergognarsi, esso fa parte della storia personale di ciascuno e ha un significato.

È necessaria la misericordia, anzitutto quella divina: il Dio d’Israele è l’artista per eccellenza in grado d’attuare il Kintsugi. Rabbi Alexandri dice: «È un disonore anche per un uomo servirsi di un vaso rotto. Ma per il Santo non è così. Al contrario, egli si serve solo di vasi rotti: «il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato» (Sal 34,19); «egli guarisce i cuori infranti» (Sal 147,3).

Il Risorto si fa vedere con delle ferite. Quelle mani e quel fianco sono il tatuaggio del male ricevuto e del perdono offerto. Segni che non si cancellano. La resurrezione cancella i segni della morte e del peccato ma non i segni dell’amore vissuto, perché l’aver amato ha una forza che va oltre la morte. La cura dei malati che le mani di Gesù hanno praticato, tutte le carezze che egli ha dato, tutto il suo amore vissuto, ferito resta visibile anche nel suo corpo risorto.

Il Cristo Risorto invita Tommaso ad avvicinarsi e a mettere il suo dito in quelle stigmate. E Tommaso, senza mettere il dito in quelle piaghe, disse: «Mio Signore e mio Dio».

E così, il Risorto ferito rinnova la fiducia alle vite ciaccate dei discepoli.