Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

Il Verbo, la carne e un «più in là»

Natale del Signore

Non è facile da comprendere e accettare il mistero di un Dio che prende la carne umana, perché la parola carne tiene insieme la bellezza e anche la miseria della storia e della vita dell’uomo. Pensiamo alla bellezza di un bambino che nasce, di un neonato lavato, pulito; poi il bambino cresce, inizia a esprimersi e passano gli anni; arriva la giovinezza, quella che il profeta Ezechiele definisce l’età dell’amore; la bellezza di un ragazzo o di una ragazza con la ricchezza dei sentimenti di quella età. La bellezza della maturità di un uomo e di una donna nel cuore degli anni. Poi iniziano i segni della fatica, la vecchiaia e la morte. 

La carne è questo: umanità che cresce tra splendore e decadenza, confusione e ricerca, tra la ragione e il cuore, tra stanchezza e fedeltà.

Gesù ha sperimentato la bellezza della carne: la gioia degli affetti e delle amicizie, del mangiare insieme agli altri; non ha conosciuto la vecchiaia, ma ha vissuto la fatica della vita, si è seduto stanco, non è stato capito da coloro che più amava e che stavano con lui; ed infine ha conosciuto la morte.

Il Verbo si fece carne.

Uno dei paradossi del cristianesimo: Dio salva l’uomo così, unendosi in modo inesorabile alla sua carne mortale.

Questo può insegnarci almeno due cose:

1) Come cristiani dobbiamo rimanere fedeli e non disprezzare le cose della terra, della storia. “Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio”, così scriveva Simone Weil.

2) Il Dio di Gesù Cristo ci salva a modo suo, condividendo la nostra umanità. A nessuno è risparmiata la fatica del vivere. Non è stato così nemmeno per il Figlio dell’uomo.

Questo può dare fastidio. Da Dio ci si aspetta altro, se è Onnipotente. Eppure, quella sua apparente debolezza ci affascina.

A farsi carne, a prendere dimora in mezzo a noi è la Parola.

“Credo nella mia vita se ho parlato, / credo nella mia parola se ho vissuto”: in questo verso di Maria Luisa Spaziani possiamo condensare la vita di quel bambino nato a Betlemme, che crescendo ha parlato e vissuto la sua Parola,  offrendo – senza imporsi – alla bella ma anche fragile vita dell’uomo, una speranza che rende fedeli alla terra nella consapevolezza che tutto ciò che ha a che fare con la natura umana, quindi anche con la morte, non può rimanere solo nell’ambito della carne, ma deve andare oltre. Proprio come diceva E. Montale: “tutte le cose portano scritte dentro di sé ‘più in là’”. 

“Oggi è nato il Salvatore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc 2, 8-14)

Che questa ‘debolezza’ non ci scandalizzi.